lunedì 15 febbraio 2010

Certe notizie non diventano mai vecchie: Bhopal

http://www.avvenire.it/Mondo/Bhopal+un+disastro+senza+vera+giustizia_200912010933242370000.htm
1 Dicembre 2009 ANNIVERSARIO Bhopal, un disastro senza vera giustizia

Enorme e silenziosa, la carcas­sa dello stabilimento della U­nion Carbide soffoca con la sua ingombrante presenza la zona nord di Bhopal, affollata capitale del Madhya Pradesh. Le gigante­sche torri grigie, visibili anche a chi­lometri di distanza, proiettano la loro ombra irregolare sul cortile sterrato. Qualche ciuffo d’erba si è insinuato qua e là: sui tubi scrosta­ti, sui monumentali invasi dove un tempo c’era il pesticida, sui muri anneriti. È l’unica traccia di vita. Il resto è immobile da 25 anni.

La Union Carbide, succursale lo­cale del colosso chimico america­no, si è fermata improvvisamente alla fine del 1984. Pochi giorni pri­ma, nella notte tra il 2 e il 3 di­cembre, 40 tonnellate di gas vele­noso potentissimo, l’isocianato di metile, fuoriuscirono dalle vasche dell’azienda per inondare la città. Mezzo milione di persone – un abi­tante su tre – inalò quella miscela mi­cidiale. Il più grave disastro industria­le mai accaduto. La stime ufficiali par­lano di migliaia di morti. L’azienda ne ha ammessi 3.800. Per le inchieste indipendenti vi sa­rebbero state 25mila vittime. Un terzo – secondo l’Indian Council of Medical Research – si sarebbe spento nelle prime 72 ore. Il resto sarebbe deceduto negli anni suc­cessivi, dopo terribili sofferenze. Tuttora, oltre centomila persone soffrirebbero di disturbi cronici, la maggior parte gravi, a polmoni, nervi, occhi e muscoli. Le conseguenze del disastro, poi, si ripercuoterebbero sulle nuove ge­nerazioni. Uno studio, pubblicato sul Journal of American Medical As­sociation nel 2003 ha riscontrato gravi difetti di crescita e sviluppo nei figli delle persone esposte alla nube tossica. L’anno scorso, una nuova analisi epidemiologica del Trinity Clinical Trial ha calcolato che l’incidenza di tali disturbi è die­ci volte superiore alla media.

«Per noi è la fabbrica della morte – dice Rachna Dhingra, coordinatrice del­la International Campaign for Ju­stice in Bhopal –. Non solo per quel­lo che ha fatto allora. Ma perché continua a uccidere, avvelenando­ci lentamente, giorno dopo giorno». L’area intorno all’impianto non è infatti mai stata bonificata. Né dai vertici della multinazionale, acqui­stata nel frattempo dalla Dow Che­micals, né dal governo indiano. Il braccio di ferro tra i due è andato avanti per anni. «Il risultato è che il sito è rimasto tossico » , aggiunge con un sorriso amaro Rachna. Gli attivisti – che da un quarto di seco­lo lottano in difesa delle vittime e dei loro familiari – non hanno dub- bi: il suolo di Bhopal, le falde ac­quifere, l’aria sono contaminati. Della stessa opinione anche varie Ong e istituti di ricerca. Le analisi, realizzate da Greenpeace nel 1999, hanno trovato, nel terreno e nelle ri­serve idriche circostanti, 12 diver­se sostanze chimiche tossiche, compreso il mercurio, in quantità 6 milioni di volte superiori ai livel­li accettabili.

E da allora, la situa­zione non sarebbe migliorata. A giugno, un’altra indagine ha mo­strato che la percentuale di com­posti chimici organici sarebbe 2.400 volte più alta della soglia di tollerabilità. «Ecco perché la gente continua ad ammalarsi – afferma con tono secco Rachma –. Ben 30mila persone abi­tano nelle 16 comu­nità adiacenti all’ex Union Carbide e bevono l’acqua av­velenata da metalli, cloruri e pesticidi. Per il governo in­diano, la tragedia di Bhopal si è chiusa vent’anni fa quan­do ottenne dall’azienda una com­pensazione di 470 milioni di dolla­ri per le vittime e le loro famiglie. «Detta così sembra una bella som­ma – sospira Rachma –. Peccato che, tolte le parcelle agli avvocati e le varie tangenti ai funzionari cor­rotti, le persone interessate abbia­mo ricevuto appena 500 dollari a testa. Non sono bastati nemmeno per pagarsi le cure... » . Il risarci­mento è stato assegnato solo a chi è stato colpito direttamente dal gas. Sono, invece, rimasti esclusi quelli che hanno manifestato sintomi mesi dopo l’incidente o i figli di ge­nitori contaminati. Nessun inden­nizzo è stato mai riconosciuto a chi vive nei paraggi della fabbrica e be­ve l’acqua delle falde circostanti. Perché per gli esecutivi – centrale e locale – non esistono prove certe della tossicità dell’area. Gli studi che affermano il contrario – dicono – sono «manipolati».

E citano, a so­stegno della loro tesi, due recenti indagini, appena pubblicate dal Defence Research and Develop­ment Establishment e dal National Environmental Engineering Re­search Institute, secondo cui il gra­do di contaminazione sarebbe troppo basso per causare danni al­la salute umana. Su questa base, si è deciso di spa­lancare i cancelli dell’impianto di­smesso ai visitatori in occasione del 25esimo anniversario del disastro. La 'fabbrica della morte' verrebbe, così, trasformata in un 'museo del­la memoria'. Gli attivisti, però, non vogliono. «Quella di Bhopal non è una tragedia del passato, da com­memorare – dicono –. La catastro­fe non è mai finita. La viviamo tut­ti i giorni, da 25 anni. E continue­remo a viverla fino a quando l’inte­ra area non verrà finalmente ripu­lita ». Per il momento, la loro oppo­sizione è riuscita a far slittare l’ini­ziativa: l’apertura viene rinviata di settimana in settimana. L’ex Union Carbide resta chiusa e immobile. A un quarto di secolo dal 2 dicembre, la sua ombra ingombrante pesa an­cora su Bhopal.
Lucia Capuzzi

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