Un post, e nel giro di poche ore la storia della “gravidanza vietata” della pallavolista Lara Lugli era già diventata l’emblema «di un diritto ancora negato», «della condizione femminile in Italia», «del patriarcato che vede le donne un oggetto di proprietà altrui», di come la donna sia ancora «vittima di atteggiamenti che hanno radici medievali», «questa vergogna deve finire», «porterò il caso in Parlamento».
Dal Corriere a Repubblica, dall’Ansa a Wired, da Susanna Camusso alla senatrice Iv Daniela Sbrollini, da Maria Elena Boschi a Laura Boldrini, l’8 marzo scorso politica, giornali e mondo dello sport sollevavano gli scudi contro l’ennesima storia di «violenza contro le donne» (dal tweet della presidente del Senato Elisabetta Casellati).
La pallavolista citata “per danni”
La storia di Lara Lugli è quella di una pallavolista con un passato in serie A e che nella stagione 2018/2019 è sotto ingaggio del Volley Pordenone, serie B1. A marzo la donna comunica alla società di non poter concludere il campionato perché in gravidanza, la società risolve quindi il contratto e, quando Lugli chiede con decreto ingiuntivo gli arretrati di una mensilità, cita la ragazza per danni. Il caso è drammatico, non solo perché Lugli ha poi perso il bambino, ma perché mette a tema la questione, serissima, dei contratti e delle tutele delle atlete nel mondo dello sport, ed è paradossalmente la risposta, definita “piccata” dal Corriere, del Volley Pordenone ad attestarne la gravità.
Discriminare la maternità è da Medioevo?
La società parla di «verità ribaltata», il contratto, presentato dall’agente stesso di Lugli, prevedeva clausole penalizzanti per l’atleta in caso di interruzione anticipata, «di fronte alla maternità ci siamo limitati a interrompere consensualmente il rapporto mantenendoci in costante contatto con la giocatrice anche nel doloroso momento che ha affrontato poche settimane dopo (…) Solo quando ci è arrivata l’ingiunzione di pagamento ci siamo opposti e abbiamo attivato le clausole del contratto».
Secondo il Pordenone, che a causa della pandemia ha smesso di pagare gli stipendi, interrotto l’attività e rinunciato all’iscrizione al campionato successivo, il rimborso non è dovuto. Secondo Lugli lo è eccome, tanto più che in seguito all’ingiunzione «nessuno le ha poi chiesto di tornare a giocare». Son cose da contratti, carte, avvocati, e sì, in quanto al riconoscimento del professionismo femminile si apre un tema enorme che ha visto l’Assist, associazione che si batte per la tutela dei diritti delle sportive, chiedere un incontro a Draghi e al presidente del Coni Malagò.
Mamme secondo Boldrini e la Silicon Valley
Tutti ci ricordiamo l’attacco isterico di Boldrini contro l’immagine dell’app Immuni che un anno fa mostrava una donna col bambino in braccio e l’uomo al pc, «un’app inquinata in partenza da insopportabili e anacronistici stereotipi», «fuori dal tempo e dalla storia (…) le donne italiane non meritano tutto questo» aveva rincarato Paola Concia. Ci ricordiamo le ovazioni dei giornali alle società della Silicon Valley così avanti nei diritti da proporre alle dipendenti di congelare i propri ovuli al grido “prima la carriera”, un benefit modernissimo per definire inequivocabilmente la maternità un intralcio.
Ovuli in freezer e uteri come attrezzi
Abbiamo visto mobilitazioni di ogni sorta per il diritto delle cinquantenni a fare figli, in lotta contro l’orologio biologico e l’inchiodamento delle giovani donne al destino della maternità, per il diritto a interrompere gravidanze in qualunque momento per qualunque motivo. Una maternità svilita ogni giorno dagli stessi giornali e politici (e dai tribunali), che oggi si stracciano le vesti per un “diritto negato” ma che trovano assolutamente normale che una donna infili i gameti in freezer, congeli gli ovuli, usi il proprio utero come un attrezzo o che una coppia di uomini possa farne le veci.
Ecco a cosa ci ha portato la sindacalizzazione della “questione femminile”, l’industria dei diritti e una battaglia per l’emancipazione eternamente sbilanciata ad assicurare libertà alle donne che di figli non ne possono o non ne vogliono avere. Un contratto come quello proposto dal procuratore di Lugli, e firmato dalla pallavolista e dal Volley Pordenone non dovrebbe avere cittadinanza perché la genitorialità non andrebbe mai discussa secondo le leggi di mercato: ma quando si è visto un altrettanto giusto sollevamento di scudi, in questa società dell’uguaglianza, a favore della maternità come valore sociale e non solo come arma di rivendicazione o diritto nel mercato del lavoro?
Quando Verona faceva schifo
È uno strano doppio standard. Non era forse medievale anche chiamare Verona «città a favore della vita»? Quando il consiglio comunale nel 2018 varò un’iniziativa per sostenere economicamente le donne incinte in difficoltà, senza mezzi o lavoro, Monica Cirinnà si disse «esterrefatta e schifata», e Pd, Leu e M5S si scagliarono contro una sorta di indebita classifica di valore che ponesse la scelta della maternità al primo posto, relativizzando le altre. Non è diverso da quello è che stato scritto in questo 8 marzo, quando medievale è diventato discriminare chi sceglie di diventare madre. Ma allora Verona era emblema di un altro diritto negato, quello di chi di figli non ne vuole sapere, e di un valore attribuito alla maternità per cui, quando non è l’8 marzo o non c’è qualcuno da salvare dal patriarcato, non si alza alcuno scudo.
Quando si parla di vita, nella sinistra scatta un riflesso pavloviano violento e irrazionale. Non c’è niente da fare, è più forte di loro. L’ultimo esempio è accaduto a Udine dove due politici di Forza Italia, Giovanni Govetto, con delega alla famiglia, e Enrico Berti, presidente del Consiglio comunale, hanno presentato un ordine del giorno dal titolo “Sostegno alle realtà associative che si occupano di sostegno e aiuto alla vita e istituzione di un Tavolo sulla natalità al fine di contrastare il preoccupante problema sociale del calo demografico”. Cosa dice l’Odg? Ognuno può leggere qui di seguito il documento e constatare che si tratta di un testo tutto “in positivo”, teso a sostenere la natalità.
Problema demografico
L’inverno demografico non è un problema di destra o di sinistra. È una questione che riguarda tutti, dicono i nostri due consiglieri che fanno notare che «l’incapacità di riconoscere il problema e di reagire ha condotto l’Italia – e la Regione Friuli Venezia Giulia – ad occupare gli ultimi posti nel continente europeo per tasso di natalità (circa 7,6 nati ogni 1000 residenti in Italia, 6,4 – ben al di sotto della media nazionale – per il Friuli Venezia Giulia, in tendenziale diminuzione)». Date queste premesse, dunque, Govetto e Berti chiedono al Consiglio di «valutare la possibilità di istituire un Tavolo sulla natalità in sede comunale, con la partecipazione di rappresentanti delle istituzioni, della società civile, delle realtà associative e di volontariato, a supporto della delega alla Famiglia. Di impegnarsi al reperimento di nuovi finanziamenti e contributi volti a sostenere stabilmente le realtà che si occupano di aiuto e sostegno alla vita, alla maternità e alla genitorialità e al sostegno del lavoro casalingo».
Voto a favore
L’ordine del giorno passa a maggioranza. Votano a favore non solo i partiti di centrodestra, ma anche quattro consiglieri dell’opposizione, tra i quali la capogruppo del Movimento 5 Stelle, Rosaria Capozzi, che dichiara: «La proposta può essere un valido sostegno alla natalità e alle famiglie in difficoltà, e non penso, con ciò, di offendere chi sostiene posizioni diverse, riferendosi a situazioni che sono comunque tutelate e rispettate. Se una donna non può permettersi di far nascere e crescere un bambino, questa è una sconfitta per tutti». Solo per un “errore tecnico” nel corso del collegamento telematico non viene computato a favore dell’odg anche il voto di due rappresentanti del gruppo misto. Risultato finale: su 41 componenti dell’assemblea cittadina, ben 29 si esprimono a favore, 6 contrari, 4 astenuti, 2 assenti.
Poteva mancare l’Anpi?
Tutto bene? Manco per sogno. Ecco scattare il famoso riflesso. Quattro consigliere del Pd (Cinzia Del Torre, Eleonora Meloni, Monica Paviotti e Sara Rosso) dichiarano che «è inaccettabile che nel 2021, proprio a Udine, città dei diritti per eccellenza, si approvino furbesche proposte di sostegno alla vita, cercando di minare quel sacrosanto diritto di scelta sul nostro corpo», perché «il calo demografico si combatte con le pari opportunità, con servizi per l’infanzia e di assistenza all’avanguardia, che consentano alle donne di coniugare i tempi per la famiglia con i tempi per il lavoro». Poteva mancare l’Anpi? Non poteva mancare, e infatti anche l’associazione partigiani se ne esce con un comunicato in cui dichiara: «Ancora una volta a essere colpite sono state le donne e le loro libertà di scelta e di autodeterminazione. Ancora una volta il corpo delle donne diventa strumento sul quale scrivere proposte di legge, normative, concessioni e divieti. Ancora una volta si decide senza di loro». Non perdono l’occasione nemmeno le “Donne in Nero – le Donne resistenti Udine” che rincarano la dose con un altro comunicato in cui si esprime «ferma contrarietà al progetto ideologico e sessista» e il Fvg Pride.
Lo striscione
A surriscaldare gli animi arriva infine la presa di posizione della deputata Debora Serracchiani, secondo la quale «come altre amministrazioni di destra in Italia, anche chi guida il Comune di Udine lavora per introdurre subdolamente azioni che vanno contro le donne e farci tornare indietro di decenni». Alle parole seguono poi le manifestazioni, come quella che porta all’esposizione sabato di uno striscione nella centralissima Loggia del Lionello a Udine: «Clito ride dove Chiesa brucia».
Ecco a cosa si è ridotta una sinistra non solo immemore delle lezioni di Pasolini e Bobbio sull’aborto, ma anche incapace di uscire dal recinto ideologico della rivendicazione dei diritti per provare ad affrontare in maniera concreta e positiva il problema demografico italiano.
Cronache dalla quarantena bis / 1
Ci risiamo. Mi tocca di nuovo mettere la mascherina e immergermi nelle cronache di lockdown. 2. La vendetta. Da lunedì 15 marzo 2021, siamo messi esattamente come domenica 8 marzo 2020. C’è una variante però: Mario Draghi al posto di Giuseppe Conte. È un ottimismo un po’ meno fulminato di quello del famoso portajella #andràtuttobene. Qui adesso Draghi ha più aplomb, non fa il padre della patria di padre Pio e non ha il ciuffo accalappia Milf a Molfetta.
Senza dubbio «ce la faremo»
«Ce la faremo. Stretta necessaria ma sosterremo le famiglie. Aspettiamo il nostro turno per i vaccini». Così dice il premier eurofit al titolo sinfonico e accordato ai giornaloni in forma di giusta e doverosa rassicurazione ai sudditi cittadini. Sì, dico “sudditi” perché un po’ lo siamo diventati dopo trent’anni di antipolitica e di non politica per menare prima il Berlusca poi chiunque mettesse fuori la testa.
Sabina Guzzanti, ce la meni anche tu sulla «democrazia morta», proprio tu che per tanti anni hai fatto la becchina, in effigie naturalmente, ma con la satira da mattanza, appunto, alla politica? Ed eccoci qua. «Ce la faremo». Non ci sono dubbi. Se non viene prima la fine del mondo e se la Covid Culture non seguirà la Cancel Culture dove si è infilata la democrazia americana, certamente, sicuramente, con la grazia di Dio ce la faremo.
Il risultato dell’antipolitica
Ma ammettiamo almeno questo, rifletteteci: in 30 anni la Germania ha avuto Helmut Khol e Angela Merkel. La Francia Nicolas Sarkozy e Emmanuel Macron. La Gran Bretagna Tony Blair e Boris Johnson. Semplifico naturalmente, ma per far risaltare ancora di più ai nostri occhi ed esperienza italiani che noi invece abbiamo avuto trent’anni di ammazza Berlusconi e chiunque avesse la presunzione di fare politica. Il risultato è questo: peso specifico dell’Italia in Europa e nel mondo? Zero.
Ti possono mettere in fila per ultimi nella distribuzione dei vaccini, ammazzarti un ambasciatore in Africa, prenderti in giro con la via della seta di paese occidentale più favorito nelle relazioni con la Cina, e poi ammollarti dispositivi di pongo. Ma guardiamo avanti. Avremo ancora tre anni di parlamento morto. Tre anni di governo dello Stato (perché questo è il governo Draghi, l’ultima riserva della Repubblica).
Però ci sono i vaccini
Però a differenza dell’anno scorso ci sono i vaccini. Purtroppo è proprio questa l’altra mezza verità: c’è ne sono 7 milioni e noi italiani siamo almeno 60 milioni. In più c’è il richiamo. Diciamo che ce ne servirebbero almeno 100 milioni, e non ci tranquillizza il fatto che è partito l’hub, che a fine mese ne arriveranno 532 mila (su 100 milioni?). E che quelli che abbiamo – una manciata – sono soprattutto AstraZeneca, che qualche problemino empirico sembra lo ponga.
Io non sono un pessimista. Io non sono per abbattere il morale della truppa. E a dirla tutta, sono un cattolico popolare che se mi dicessero facciamo un fronte di mobilitazione per tirare su il paese io mi arruolo. Ma c’è la Sant’Egidio che fa già tutto. Perfetto. Ubi maior… Avanti con questo accento e strazio sui poveri che state sicuri diventeremo poveri tutti e si salvi chi può.
Però c’è Sala che entra nei Verdi
Ma dicevo che sono sul pezzo e non voglio destare pessimismi. Ma neanche anestetici. Se cercassi notizie divaganti ma fortemente rassicuranti vi darei questa dei 72 mila islamisti a cui, passato il viaggio epico di pace di papa Francesco in Iraq, sarebbe saltata la mosca al naso di farci la barba da Londra a Parigi, passando naturalmente da Berlino per farsi una birra rossa.
Per fortuna c’è almeno la bella notizia che Beppe Sala entra nei “Verdi Europei” ed esce dal Pd. Fantastico. Così moltiplicherà le piste ciclabili che gli stanno facendo una propaganda tanto buona per le prossime elezioni spostate a ottobre, visto che non c’è zona a Milano in cui non siano sorti “comitati cittadini” arrabbiatissimi.
Però ci sono le piste ciclabili
Ma certo, uno pensa che per fare una ciclabile basta alzarsi al mattino, andare dal ferramenta, un barattolo di vernice bianca e giù a pitturare come artisti di strada le vie principali. Dove prima passavano le automobili adesso passano ciclisti arrotati, auto che scaricano i disabili in mezzo alla strada, code interminabili di auto perché le piste ciclabili bloccano il traffico, eliminano centinai di parcheggi. E poi c’è l’area B, e l’area C, dove non entri col diesel. E dall’anno che verrà c’è il nuovo piano green. Che tra alberi e piste ciclabili, sai cosa ti dico, ma che ci vai a fare in Valle d’Aosta, vieni in piazza Duca d’Aosta, e poi la strada è tutta dritta fino in cima al Duomo, da dove si vedono le Alpi e si respira un bel particolato proprio specifico della Valle Padana.
Come? Hai detto che vuoi riprendere a lavorare, ce la faremo e perfino che potrà #andaretuttobene? Beh, allora qua la mano, hai la fede, ce l’ho anch’io. Non però nello Stato demiurgo. Ma nel buon Dio.
Foto di Lu Amaral per Unsplash
Tratto dalla Gazzetta di Parma del 12 marzo 2021 – Alla partenza dall’Italia per il fronte russo la divisione Julia contava 16 mila uomini, 4.000 muli, armi, tende, vettovagliamenti. Per caricare tutto c’erano voluti 55 treni. Il 1° marzo ’43, dopo la Ritirata, i resti della Julia dislocati a Gomel, Bielorussia, erano 3.200 uomini laceri, feriti, febbricitanti. Hai scritto tu ne La Ritirata di Russia:
«Per caricare tutta la Julia a Gomel bastarono solo tre treni merci. Il mio treno valicò il Brennero la notte sul 19 marzo ’43, giorno di san Giuseppe. (…) Eravamo pelle e ossa. Avevamo i visi affilati, gli sguardi spenti, le teste vuote, gli abiti a brandelli e bruciacchiati. Al di qua del Brennero era già caldo e verde, soffiava un dolce tiepido vento. Venuto il giorno ci affacciammo ai finestrini. Il treno scendeva la valle dell’Adige, l’Italia ci apparve come uno straordinario meraviglioso giardino».
Come vorrei potere vederla, papà, quell’alba di primavera nella valle dell’Adige. Il verde chiaro dell’erba appena spuntata, le nuvole dei peschi e dei meli in fiore. E l’Adige color smeraldo, quieto, regale. Che terra meravigliosa, che terra benedetta da Dio deve esservi apparsa l’Italia ritrovata, quel mattino, nella luce del primo sole.
Eravate feriti, sfiniti, disfatti da ciò che avevate visto e patito sul Don, è vero. Però da quel che scrivi mi pare, papà, che ci fosse sul vostro treno un’invisibile compagna: una speranza indicibile in quegli uomini stremati ma vivi, che tornavano a casa.
Una speranza vigorosa come la sorgente di un fiume generoso. Tutta la morte e il dolore attraversato avevano generato silenziosamente questa fonte carsica in voi: adesso, pensavate, la vita sarebbe ricominciata. Avreste rivisto i genitori, i fratelli, e la donna di cui eravate innamorati. Finita la maledetta guerra ci sarebbe stato da lavorare, tanto, per ricostruire, e da sposarsi, e da fare dei bambini.
Ai vostri stessi occhi forse eravate dei poveri uomini, degli sconfitti, sul merci che sferragliando lentamente vi riportava in patria. C’era in voi però, muta, tanta di quella speranza, che il treno faticava a contenerla.
Ecco: avere noi, oggi, soltanto un poco di quella speranza. Non la stessa, certo, noi non siamo reduci dal Don. Ma almeno l’eco di quella voglia di ricominciare, e di vivere. Poteste voi, che ormai siete tutti in cielo, mandarcene un po’, a noi smarriti in questo anno 2021, di quella vostra speranza dell’alba di San Giuseppe 1943: quando, sorgendo il sole, l’Italia vi apparve come uno «straordinario meraviglioso giardino».
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