Da oggi in libreria "Una passione - L’avventura missionaria di Arturo Alberti" in cui si racconta la straordinaria opera di Avsi a Belo Horizonte in Brasile (alla faccia degli ambientalisti)
Oggi esce in libreria Una passione – L’avventura missionaria di Arturo Alberti, libro a firma di Rodolfo Casadei che racconta sessant’anni di storia di missionari laici nei paesi emergenti e di presenza cristiana nella società italiana attraverso la biografia di Arturo Alberti, il medico pediatra fondatore della nota Ong Avsi. Negli anni del liceo Alberti incontra Comunione e Liberazione, e insieme alla comunità della sua città interpreterà perfettamente la missione come dimensione totale della vita cristiana, prima a livello locale e poi nel mondo intero. L’esperienza di Avsi è pervasa del carisma di Cl, tanto che la comunione cristiana diventa fattore determinante dello sviluppo umano nello Zaire, del recupero delle favelas in Brasile, della salute in Uganda.
Il brano che segue ripropone le origini del secondo grande progetto realizzato da volontari ciellini di Avsi in Brasile: Anna e Livio Michelini, che insieme a don Pigi Bernareggi e a Rosetta Brambilla erano stati protagonisti del grande progetto Alvorada a Belo Horizonte, si spostano a San Salvador Bahia e danno vita al progetto Novos Alagados, che prevedeva il trasferimento sulla terraferma degli abitanti di palafitte costruite su di una maleodorante laguna.
Il progetto Alvorada fu affidato, a partire dal 1992, a Enrico Novara, un ingegnere brianzolo che diventerà responsabile e coordinatore di tutti i progetti Avsi in Brasile fino al 2004, mentre Anna e Livio cominciarono a realizzare a Salvador un progetto pilota finanziato dal Ministero degli affari esteri (Mae) che prevedeva il risanamento abitativo di una piccola area dei Novos Alagados. Troppo piccola rispetto ai bisogni drammatici che ferivano gli occhi di chi rivolgeva lo sguardo a quella situazione. Ma la Provvidenza fece la sua parte.
Così Anna Michelini racconta la stupefacente storia dell’intervento a Salvador Bahia. «Avevamo chiarito con l’arcivescovo che il nostro metodo prevedeva di partire da una presenza cristiana già attiva sul posto, perciò andammo a vedere un insediamento vicino al quale viveva una coppia sposata che cercava di fare alfabetizzazione degli adulti e dei bambini col metodo di Paulo Freire. La situazione igienica e ambientale era terrificante, nonostante il panorama fosse meraviglioso: in una insenatura della grande Baia di Tutti i Santi i favelados avevano costruito vere e proprie palafitte, in un punto dove i movimenti di marea oscillavano di due metri circa al giorno. Era il rifugio dei disperati, di chi era stato cacciato da altri insediamenti, non sapeva più dove andare, e alla fine aveva dovuto lasciare la terra ed era andato a vivere sul mare. Quando la marea era bassa, sotto gli edifici si raccoglievano enormi quantità di rifiuti di ogni genere, non solo quelli organici che cadevano dal buco nel pavimento che fungeva da gabinetto all’interno delle baracche, ma quelli che arrivavano dai quartieri di Salvador collocati più in alto rispetto alla conca di Ribeira Azul, e che in assenza di un collettore fognario si accumulavano sulle sponde della laguna dei Novos Alagados. La puzza era terribile, e le condizioni di vita orribili: ho visto madri bollire i cartoni e darli da mangiare ai bambini per farli smettere di piangere; ho visto bambini morire folgorati sui pontili che collegavano le palafitte, perché gli allacci abusivi ai tralicci dei quartieri circostanti per avere l’elettricità diventavano una trappola mortale quando la pioggia o l’alta marea bagnavano i fili scoperti. Ebbene, quando abbiamo fatto le prime assemblee coi favelados per pensare con loro il progetto di riurbanizzazione uno dei loro leader comunitari, un signore padre di 17 figli che tutti chiamavano Vavà, ha detto: “Se decidete di fare qualcosa, la prima cosa che dovete costruire è una scuola”. Gli chiedemmo di spiegare perché, con tutti i bisogni che c’erano, secondo lui bisognava cominciare dalla scuola. Rispose: “Perché mio nonno era uno schiavo marchiato; io sarei un uomo libero, ma in realtà sono uno schiavo come lo era lui, perché non so né leggere né scrivere. Non voglio che anche per i miei figli sia così”».
«Noi avevamo a disposizione una cifra intorno a 1 milione di euro per intervenire, ma era largamente insufficiente: solo per l’intervento fognario sarebbero serviti più soldi. Cominciammo a operare consapevoli dell’inadeguatezza del nostro intervento. Poi sulla stampa locale apparve una notizia che mi fece impazzire di rabbia: si diceva che lo Stato di Bahia avrebbe dovuto restituire 10 milioni di dollari di prestiti della Banca Mondiale destinati a interventi urbanistici, perché non era stato in grado di spenderli nei tempi previsti. Presi il primo aereo che trovai e andai a Brasilia, alla sede dell’ufficio brasiliano della Banca Mondiale. Senza appuntamento e senza preavviso, chiesi di poter parlare col responsabile della Banca Mondiale per il Brasile. Naturalmente mi dissero che non era possibile, ma io risposi che non mi sarei mossa da lì fino a quando non avessi potuto parlargli. Dopo un paio di ore di anticamera il dirigente mi ricevette, e rimase per un’ora ad ascoltare tutto quello che avevo da dire e da mostrargli, dagli articoli accademici sull’intervento che avevamo fatto a Belo Horizonte, ai disegni dei bambini dei Novos Alagados con le nuove case e le scuole che avrebbero voluto veder sorgere: era una prova ingenua del fatto che si trattava di un progetto condiviso e partecipato dalla popolazione. Lo rassicurai che non ci sarebbero state nuove occupazioni durante la realizzazione del progetto, che la comunità locale avrebbe garantito. Se anziché restituire a Washington i 10 milioni di dollari che lo Stato di Bahia non riusciva a spendere li avesse dati a noi, nel giro di un anno li avremmo spesi e le palafitte sarebbero sparite. Ascoltò con la massima attenzione e alla fine mi rispose: “Lei è molto convincente, ma io non posso prometterle nulla. Però posso assicurare che organizzeremo una missione sul terreno nel più breve tempo possibile”. Mantenne la promessa: poco più di due settimane dopo la mia improvvisata a Brasilia, arrivò a Salvador una delegazione della Banca Mondiale coi responsabili del dipartimento progetti urbanistici che avevano sede a Washington, insieme al rappresentante per il Brasile che avevo incontrato io. Per loro organizzammo una giornata di presentazione spettacolare, aiutati anche da Rori Mingucci (l’autore di una tesi di laurea, poi docente universitario, che è stata la base per il progetto Alvorada a Belo Horizonte – ndr). Furono impressionati soprattutto dal fatto che non ci fosse nemmeno un bambino che non gli sapesse dire: “signori, qua ci sarà la scuola per imparare a leggere e a scrivere, là quella per la samba e la capoeira, e qui si costruirà la mia nuova casa”. Così decisero di assegnare al nostro progetto i 10 milioni di dollari che Bahia non aveva saputo spendere, e pretesero che noi fossimo ufficialmente l’ente gestore dei fondi. D’accordo col governo di Bahia, accettammo la condizione, e poi creammo un’équipe mista di dirigenti dello Stato e personale di Avsi per portare avanti il progetto. Non bisogna mai lavorare “contro” le autorità locali».
Ambientalisti radical-chic zittiti
Arriva il 1995, e l’Unep, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, delibera di iscrivere nel suo Albo D’Oro denominato Global 500 Anna e Livio Michelini con la roboante ma giustificata motivazione: «Per aver contribuito a migliorare le condizioni di vita sulla terra, come membri attivi della comunità». La cerimonia di premiazione è fissata al 5 giugno, Giornata mondiale dell’ambiente, e ha luogo a Pretoria, in Sudafrica, dove Nelson Mandela è il capo dello Stato da due anni, dopo averne trascorsi 27 in prigione. I coniugi italiani vengono premiati per il progetto Alvorada, giudicato come una perfetta combinazione di lotta alla povertà e difesa dell’ambiente. Nel giugno 1996 UN-Habitat, l’ente specializzato delle Nazioni Unite che si occupa degli insediamenti umani, soprattutto quelli che costituiscono le città, tiene la sua seconda conferenza mondiale a Istanbul. Il progetto dei Novos Alagados è stato inserito fra le migliori best practices, le iniziative che meglio rispondono alle esigenze di insediamenti umani all’insegna della giustizia sociale e del rispetto dell’ambiente. Anna Michelini viene invitata a illustrare quello che Avsi e le controparti locali stanno facendo a Salvador Bahia.
Il premio dell’Unep e l’invito a presentare il progetto in corso di realizzazione a Salvador Bahia alla conferenza di Habitat arrivano al momento giusto per risolvere un nuovo problema che si era presentato. Vinta l’inerzia delle autorità locali, che stavano dando prova di ravvedimento operoso, a ostacolare il recupero urbanistico delle favelas era arrivato un agguerrito gruppo pseudo-ambientalista radical-chic, comprendente docenti universitari, che si opponeva al progetto sostenendo che sul posto andava ricostituita la foresta di mangrovie che gli insediamenti umani avevano compromesso, e che non sarebbe ricresciuta se i favelados fossero stati spostati sulla vicina terraferma. «Era vero il contrario», racconta Anna. «Mangrovie e insediamenti umani potevano convivere se solo si fossero eliminate le palafitte e costruito il sistema fognario che doveva servire sia il quartiere a monte dei Novos Alagados che la favela ristrutturata. E così infatti fu: la laguna riprese vita grazie alla realizzazione del progetto, le mangrovie e i pesci ripopolarono lo specchio d’acqua senza nessun disturbo dal vicino insediamento umano. Ma in quei giorni i cosiddetti ambientalisti organizzavano manifestazioni contro il progetto, addirittura si presentavano alle palafitte regalando ai bambini vasetti contenenti piantine. Quando arrivò la notizia del premio dell’Unep, le manifestazioni di protesta cessarono: prima che a noi il Global 500 era stato assegnato a Chico Mendes e a Jacques Cousteau, che per gli ambientalisti erano personalità venerabili. Istanbul l’anno dopo chiuse definitivamente il discorso: tutti dovettero accettare che i nostri progetti conciliavano la protezione dell’ambiente con le esigenze umane e la lotta alla povertà».
Grande fu la soddisfazione dei due cooperanti per i premi e per gli inviti, ma forse ancora più grande fu per il gruppo dirigente di Avsi, che vedeva confermato il valore del metodo Avsi: considerare le motivazioni e il rapporto umano importanti tanto quanto le qualità professionali. «Al giorno d’oggi», commenta Arturo Alberti, «Anna e Livio Michelini non sarebbero mai stati selezionati come capoprogetto di un intervento così vasto e articolato come quello di Belo Horizonte: erano semplicemente una dirigente sindacale e un insegnante di fisica, non avevano esperienza pregresse di cooperazione internazionale; i criteri che vengono applicati oggi dalle Ong per selezionare il personale per i programmi cofinanziati dal Mae o dall’Unione Europea avrebbero orientato la scelta su individui più esperti. Eppure hanno realizzato un lavoro talmente qualificato da meritarsi un premio Onu. La dimensione missionaria e umana si è rivelata un fattore di riuscita del progetto, non un ostacolo o un’interferenza».
(tratto da Rodolfo Casadei, Una passione – L’avventura missionaria di Arturo Alberti, Cantagalli 2022, pp. 154-160)
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