Caro direttore,
sono un comune cittadino. Guardo anch’io, come tutti, alla politica con un certo sospetto: in parte sembra un gioco, a volte un imbroglio, a tratti invece un compito difficilissimo, quasi impossibile. Mi perdo tra alleanze, cartelli elettorali, programmi di schieramento e programmi identitari. E provo la tentazione di scappare. Poi penso alle parole di Paolo VI, il mite e ragionevole Papa del 'messaggio agli artisti', che tanto amo, che diceva: «La politica è la più alta forma di carità». L’appello non mi lascia insensibile. Perciò evito il piano inclinato del cinismo e del disinteresse autogiustificato e provo a pormi la questione: entrerei in politica? Mi candiderei? Porterei avanti, insieme ad altri, una serie di proposte che, se non ci fossimo noi, non avrebbero rappresentanza?
La risposta, direttore, l’ho letta spesso e in vario modo anche sulle pagine di questo giornale,. ma viene prima di tutto dalla mia coscienza, sempre in dialogo con la realtà. Ed è chiara: entrerei in politica, se il manifesto del mio partito o movimento fosse il 'manifesto della vita'. Segnalo subito i capisaldi di un 'programma per la vita' da svolgere nell’arco di una legislatura: no all’aborto, no all’eutanasia, no alla guerra e no alla cultura dell’indifferenza e del respingimento. I 'sì' sono altrettanto netti: si all’effettivo adempimento dell’articolo 27 della Costituzione («…L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»); sì a una difesa attiva del bene della vita e della sua qualità in ogni circostanza e in ogni condizione; sì alla difesa di tutto ciò che è bene comune, a cominciare dalla vita del nostro pianeta che è «casa comune dell’umanità»; sì a un’economia che non guardi solo all’incremento costante della produzione e dello scambio di beni, a discapito della qualità della vita e a vantaggio di pochi.
Dunque la parola fondamentale di un programma sul quale sarei pronto a mettere la mia faccia (e a perderla, eventualmente) è sempre una: la vita. Immagino già qualcuno che, leggendo queste righe, alza il sopracciglio e sussurra: «Sì, bravo. Ma ci sono ben altri problemi. E anche per raggiungere i tuoi obiettivi servono mediazioni, scelte di struttura e di sistema, risorse. E poi bisogna evitare l’estremizzarsi di tensioni sociali, di ingiustizie. E poi bisogna pensare al pluralismo ideologico e ai diritti di tutti. E poi…». Mi perdo di nuovo, ma vorrei provare a difendere la sensatezza – come minimo – delle proposte di un 'manifesto per la vita'.
Cominciamo dall’aborto. Nel vasto panorama dei problemi del Paese, è solo un dettaglio, per quanto importante? No: il ricorso all’aborto esprime sempre una resa, una rinuncia. Esprime uno spirito carico di pessimismo nei confronti del futuro. Considerare normale che ci siano 'situazioni' in cui una vita umana unica e originale possa essere sacrificata getta un’ombra raggelante su qualsiasi altra scelta politica. Al contrario: una società che si dia cultura e soprattutto mezzi concreti per sostenere sempre ed efficacemente la gravidanza e la nascita di un essere umano significa riplasmare una comunità nel profondo. E non posso, in questo breve spazio, approfondire il fatto che una vera lotta contro l’aborto porterebbe con sé altrettanto impegno a favore della qualità della vita di tutti gli indifesi e i deboli: portatori di handicap, anziani, inabili al lavoro, sofferenti per disturbi psichici, giovani in cerca di nutrimento contro la povertà educativa che soffoca le loro speranze. Passiamo all’eutanasia. Senza alcuna esaltazione del 'dolore come vocazione eroica a una qualche purificazione cosmica…', una società che si prenda davvero cura del morente, con tutti i mezzi adeguati, non avrebbe alcun bisogno, anche qui, di arrendersi all’inevitabile… accelerandolo. Non accetterebbe che ci siano persone che si sentono già 'morte' nel momento in cui temono di essere un peso per gli altri, invece che persone che si possono amare e che possono godere dell’amore fino all’ultimo.
E la guerra? Introdurre in politica estera una logica che finalmente superi la competizione che porta con sé la paura (spesso alimentata dalla paranoia nazionalista) di 'perdersi' nel possibile mondo di una globalizzazione come fratellanza universale… mi sembra un enorme progresso. Altro che 'scelta atlantica', altro che 'eurasismo', altro che 'confini naturali della nazione', altro che 'vocazione identitaria', altro che 'difesa dei legittimi interessi'… E noi italiani, cittadini del mondo (amati, nel mondo) con speciale vocazione all’apertura e allo stimolo di ogni ricerca del bello, del vero e del bene (buono compreso), di questa politica estera dovremmo diventare maestri a livello planetario.
Infine, l’accoglienza, di tutti, a cominciare da chi più ha bisogni. Ripartire dall’idea che l’immigrazione è una eccezionale opportunità economica, che va sostenuta, regolata, resa possibile con dignità ed entro regole (umane) certe, significa smettere di basare tutta la politica sulla paura.
Sì alla vita. No alla paura.
Per questo entrerei in politica.
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