mercoledì 6 gennaio 2016

Come cambia il lavoro

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Licenziamento per soppressione posti anche senza crisi aziendale

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo valido anche se finalizzato a un maggior profitto e non a tagliare i costi aziendali.


Perché il licenziamento per riduzione del personale possa essere valido (cosiddetto “giustificato motivo soggettivo”) non è necessario che il datore di lavoro dimostri la crisi e, quindi, la necessità di tagliare i posti per ridurre le perdite; si può, al contrario, licenziare anche per una precisa scelta aziendale di rendere più efficiente la produzione e, quindi, aumentare i profitti. È quanto chiarito dalla Cassazione con una recente sentenza [1]. Secondo l’orientamento più elastico dei giudici di legittimità, il lavoratore deve andare via anche quando non serve più.
Sbaglia dunque il dipendente che ritenga nullo il licenziamento solo perché l’azienda non riesce a provare la sussistenza di una crisi aziendale tale da rendere necessaria la soppressione della sua posizione.



Per esempio, potrebbe essere ritenuta una valida ragione dilicenziamento la sopraggiunta necessità di assumere un dipendente con una più specifica formazione e competenza, con conseguente sopravvenuta inutilità delle mansioni affidate al precedente addetto, e sempre che sia impossibile ricollocare quest’ultimo (cosiddetto “ripescaggio”) in altri compiti. Nel caso di specie l’ASL aveva licenziato una dipendente per la necessità, imposta dalla Regione, di assumere per il laboratorio di analisi un direttore laureato in biologia o in chimica.


La Cassazione

La Suprema Corte ricorda che al datore di lavoro spetta il potere direttivo e di indirizzo della propria attività, potere che il giudice non può sindacare e giudicare. L’imprenditore deve cioè essere libero di procedere a licenziamento per ragioni tecniche, organizzative e produttive.

Sebbene non vi sia piena coincidenza di opinioni, tra i giudici, di cosa rientri o meno nelle suddette “ragioni tecniche, organizzative o produttive” che possono giustificare il licenziamento per crisi aziendale [2], una cosa però è certa: le ragioni addotte dal datore di lavoro devono essere oggettivamente verificabili, cioè non pretestuose. Spetta, quindi, allo stesso datore di lavoro dimostrare la fondatezza e la veridicità delle giustificazioni da lui poste a base del licenziamento. Tanto più labili saranno tali motivi, tanto più difficile sarà la sua difesa in un eventuale ricorso proposto dal lavoratore contro il licenziamento.

Se, infatti, il datore di lavoro non fornisce tale dimostrazione, l’esercizio del potere organizzativo si considera illegittimo per sviamento.

In definitiva, secondo la nuova sentenza della Cassazione, il contratto di lavoro può essere sciolto non solo per contrarre la produzione, ma anche a seguito di una onerosità non prevista al momento della sua instaurazione e sorta in momento successivo. Tale onerosità, secondo la Cassazione, può anche consistere “in una valutazione dell’imprenditore che, in base all’andamento economico dell’impresa rilevato dopo la conclusione del contratto, ravvisi la possibilità di sostituire personale meno qualificato con dipendenti maggiormente dotati di conoscenze e di esperienze e quindi di attitudini produttive”. Esercizio valutativo questo, sempre secondo la Suprema corte, non sindacabile dal giudice.
Il magistrato non po’ ritenere legittimo, quindi, il licenziamento il cui scopo sia quello di un “non impoverimento” dell’azienda e, invece, illegittimo quello motivato da un “arricchimento”. Ciò in quanto “un aumento di profitto si traduce non, o non solo, in un vantaggio per il suo patrimonio individuale ma principalmente in un incremento degliutili dell’impresa, ossia in un beneficio per la comunità dei lavoratori”.

In ogni caso, tale orientamento non è univoco e, in passato, si sono registrate sentenze di segno opposto (v. dopo).


Giustificato motivo oggettivo: i casi

Alla luce di quelle che sono state, sino ad oggi, le pronunce dei giudici della Cassazione è possibile così ritenere definiti i contorni del licenziamento per “giustificato motivo oggettivo” ossia giustificato daragioni produttive. Esso è legittimo se il datore di lavoro:

– opera un riassetto organizzativo effettivo e non pretestuoso [3], fondato su circostanze realmente esistenti al momento della comunicazione del recesso e non riguardante circostanze future ed eventuali. È legittimo il licenziamento giustificato da unariorganizzazione aziendale finalizzata ad una più economica gestione dell’impresa, anche se il riassetto sopravviene nel corso o al termine del periodo di preavviso [4];

– verifica la possibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni (cosiddetto repechage o ripescaggio), anche nell’ambito delle società del medesimo gruppo (se le relazioni all’interno del gruppo sono tali da dar vita ad un unico centro di imputazione dei rapporti giuridici);

– sceglie il dipendente da licenziare osservando le regole di correttezza e buona fede e non pone in essere atti discriminatori. A tal fine è possibile fare riferimento ai criteri di scelta previsti per i licenziamenti collettivi.

L’onere di provare la sussistenza delle condizioni sopra indicate ricade sul datore di lavoro.

Come appena detto, il datore deve provare anche l’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni (ripescaggio) ad esempio dimostrando che:

– i residui posti di lavoro al tempo del recesso erano stabilmente occupati;

– dopo il licenziamento non è stata effettuata alcuna nuova assunzione a tempo indeterminato (quelle a termine non contano).


In caso di successive assunzioni

Se nel breve periodo immediatamente successivo al licenziamento l’azienda procede a nuove assunzioni per ricoprire mansioni equivalenti a quelle svolte dal dipendente licenziato, opera una presunzione di illegittimità del licenziamento stesso. Tuttavia, nell’ambito di una riorganizzazione aziendale, è possibile licenziare dei dipendenti per soppressione delle posizioni da questi ricoperte e assumerne di nuovi, qualora i nuovi assunti non vadano a ricoprire le posizioni lasciate vacanti dai dipendenti licenziati [5].


I precedenti contrari della Cassazione

La sentenza qui in commento si discosta da altri precedenti di segno opposto. In passato, la Cassazione ha infatti detto che la ragione del licenziamento non può essere costituita da un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore: essa non può essere meramente strumentale ad unincremento di profitto, ma deve essere diretta a fronteggiaresituazioni sfavorevoli non contingenti [6]. È stato, per esempio, considerato illegittimo perché sproporzionato, un licenziamento intimato in ragione di una ristrutturazione resasi necessaria per il costante peggioramento della situazione economica societaria e per la sensibile diminuzione delle commesse degli ultimi anni, quando dai dati rilevati non era stato dimostrato alcun calo di fatturato o altro elemento che evidenziasse l’effettiva soppressione del posto di lavoro[7].

Ai fini della configurabilità delle ipotesi di soppressione del posto non è necessario che vengano soppresse tutte le mansioni svolte dal lavoratore licenziato: le stesse possono essere soltanto diversamente ripartite e attribuite al personale già esistente [8].

Il licenziamento può rendersi necessario anche per motivi tecnologici(ad esempio: nuovi macchinari che necessitano di un minor numero di addetti o di addetti che abbiano una professionalità specifica) o per ragioni imprenditoriali diverse di carattere stabile, fondate anche solo sulla decisione del datore di lavoro di distribuire diversamente all’interno dell’azienda determinate mansioni [9] o di affidare le stesse a soggetti esterni [10].


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[1] Cass. sent. n. 23620/2015.
[2] Art. 3 legge n. 604/1966.
[3] Cass. sent. n. 8237/2010; n. 17887/2007.
[4] Cass. sent. n. 5301/2000, n. 3848/2005.
[5] Cass. sent. n. 12548/1997, n. 7832/2005.
[6] Cass. sent. n. 19616/2011, n. 14215/2005.
[7] Cass. sent. n. 22696/2014.
[8] Cass. sent. n. 19616/2011; n. 6245/2005.
[9] Cass. sent. n. 28/2004.
[10] Cass. sent. n. 6346/2013.


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