Due padri del partito contro il segretario: ma la Direzione si spacca
FABIO MARTINI, 30 Settembre 2014
Per una volta senza cravatta e con gli occhiali inforcati ancor prima di parlare. Incanutito ma non troppo. Massimo D’Alema si avvicina al microfono, se lo aggiusta e dalle prime parole fa capire subito che il suo sarà un intervento inaudito per uomo che per 40 anni di fila è stato sempre in maggioranza.
Scandisce D’Alema: «Il dibattito politico deve mantenere un forte aggancio alla realtà, ma io potrei fare un lunghissimo elenco di affermazioni prive di fondamento...» pronunciate poco prima da Matteo Renzi. Dice proprio così l’ex presidente del Consiglio e da quel momento dipana un rosario di “cattiverie” come quando consiglia Renzi «meno spot e meno slogan». O come quando cita Joseph Stiglitz: «Lui dice che il mercato del lavoro non si riforma quando c’è recessione, ma quando c’è crescita. Capisco, Stiglitz e’ un vecchio rottame di sinistra ma ha avuto un premio Nobel, di cui i giovani consiglieri non sono stati ancora insigniti. Matteo devi anche pensare a quelli che le cose le sanno...».
Un intervento spiazzante per un partito da sei mesi molto compatto dietro ad un leader vincente, ma con un dibattito interno che ha quasi cancellato i dissensi palesi. Un intervento, quello di D’Alema, che qualche minuto più tardi troverà una replica altrettanto pungente nelle parole di Pier Luigi Bersani, che arriva ad evocare «il metodo Boffo» per protestare contro Renzi e i renziani che, a suo dire, tendono a criminalizzare il dissenso, ad affibbiare etichette di perdenti e conservatori, più che discutere del merito.
Le zampate profonde dei due “vecchi leoni” che vengono dal Pci (D’Alema ha 65 anni e Bersani 63), gli ultimi due uomini-simbolo della “ditta”, ’per qualche minuto lasciano il segno in una Direzione del Pd da tempo cloroformizzata, spiazzano i pontieri della minoranza di sinistra e tutti coloro che stanno cercando un minimo comun denominatore con Renzi. Ma alla fine, dopo ore di dibattito e dopo che Renzi aveva chiuso alla possibilità di un documento unitario, i due ex capi - ecco il punto - si sono persi una parte delle proprie truppe. La minoranza (dopo le Primarie circa il 30% dei partito) si è infatti divisa in tre tronconi: i pragmatici “giovani turchi”, guidati da Matteo Orfini (un tempo braccio destro di D’Alema) e dal ministro Andrea Orlando sono definitivamente entrati in maggioranza votando il documento Renzi; una parte dei dalemiani e dei bersaniani si sono astenuti, mentre hanno votato no Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani, una parte dei bersaniani e di dalemiani e naturalmente la componente che fa capo a Pippo Civati.
Destino amaro per l’ala post-comunista che, dopo aver governato per 20 anni tutti i partiti eredi del Pci (Pds-Ds-Pd) e dopo aver perso con Gianni Cuperlo le Primarie, nel febbraio 2014 è stata la vera (e mai riconosciuta come tale) protagonista di una svolta fondamentale nella storia del Pd, quella che ha portato alla rimozione di Enrico Letta e alla ascesa a palazzo Chigi di Matteo Renzi. In quei giorni cruciali, proprio Massimo D’Alema, Matteo Orfini, Gianni Cuperlo furono decisivi nel togliere la “fiducia” al premier in carica. Certo, nei mesi scorsi D’Alema e Bersani avevano accumulato motivi di dissenso o di risentimento nei confronti di Matteo Renzi.
E ieri si sono “sfogati”. D’Alema: «Non si racconta che la riforma non è stata fatta per 44 anni, qualcuno che le cose le sa ancora c’è: l’articolo 18 non c’è più.da due anni». E poi un rosario di battute al veleno: «Non è obbligatorio sapere i fatti ma sarebbe consigliabile per governare...», «la riforma degli ammortizzatori non costa un miliardo e mezzo, ma dieci volte». E poi Bersani: «Vedo neofiti della ditta, dei neoconvertiti, che mi spiegano come si sta in un partito». Ma dopo gli attacchi a Renzi, una parte dei fedelissimi ha lasciato i vecchi capi.
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