tratto da: http://www.repubblica.it/rubriche/la-storia/2011/05/11/news/ciclista_solitudine_fatica-16079527/
Vita da ciclista - Gli operai delle due ruote
Pedalano per 42 mila chilometri l'anno, guadagnano meno degli altri atleti e faticano di più. E rischiano la vita, come è successo al belga Weylandt. Ma è grazie a loro che il ciclismo, nonostante il doping, è ancora amato dalla gentedi
GIANNI MURA
I poveri sono matti, diceva Zavattini. Anche i ciclisti, vorrei aggiungere. Non fuori di testa, ma con quel briciolo di pazzia che li porta a scegliere uno sport di estrema fatica, di molti rischi, di guadagni relativamente bassi. Una volta, era normale, quasi automatico. La bici servì a Binda per non continuare a fare lo stuccatore, sia pure in Costa Azzurra, a Coppi per sottrarsi alla zappa da usare sui costoni argillosi di Castellania. Erano e sono stati, per molti anni, ciclismo e pugilato lo sport degli affamati, il treno su cui saltare in cerca di fortuna. E pazienza se non era l'Orient Express ma una terza classe fumatori, di quelle su cui saliva Fiorenzo Magni su fino al Nord, dormiva come poteva, sempre con un occhio alla bici, e poi vinceva il Giro delle Fiandre. A volte ho pensato che il ciclismo fosse, per i poveri, una soluzione come il seminario: una bocca di meno in casa.
La vocazione serve ai preti e serve ai ciclisti. A chi stanno più a cuore le anime, a chi i corpi. Ma si è sempre a metà: correre a piedi, correre in bici, e l'uomo è ancora il motore di se stesso, correre a motore. I nostri figli certi lavori non li vogliono più fare, si continua a sentir dire in giro, per questo c'è bisogno degli immigrati. Sì, ma come la mettiamo con certi sport? Isoliamo per un po' il doping, che comunque è un rischio in più, e gravissimo.
Con o senza, è una fatica da bestie, anche se le bici pesano meno, anche se le strade sono più lisce, anche se i chilometraggi sono più
miti, anche se gli alberghi non sono più topaie, anche se si è seguiti da un medico o da un preparatore atletico (fin troppo, talvolta).
Ieri al Processo alla tappa Bettini ha detto che il ciclismo è uno sport che fa sentire liberi. Forse sì, ma facendo una vita da schiavi. Non esiste uno sport in cui io debba comunicare alla superiore autorità ogni mio spostamento. Io ciclista devo essere reperibile tutti i giorni dell'anno, anche in vacanza, anche il giorno in cui vado a un funerale o cambio idea: non vado in pizzeria, vado al cinema. Sono un sorvegliato speciale, un vigilato a vista. Ed è anche colpa mia, o della mia categoria, ma io ciclista sogno il giorno in cui, a poche ore dal derby di Milano o di Barcellona, si presenteranno i cavasangue, come si presentano nei nostri alberghi alle sette del mattino, e magari quel giorno si fa il Ventoux o il Mortirolo, ma se anche fosse una tappa piatta come una mano la sostanza non cambia, anche il più pulito può avere la rogna (questo non è scritto ma lo sappiamo). Io ciclista, che adesso non posso più fare nemmeno una puntura di vitamine, penso a com'è bella la vita dei calciatori, che giocano un'ora e mezzo la domenica e il lunedì riposano, mentre noi dopo una tappa alpina ne abbiamo un'altra e un'altra ancora. Forse è per questo che la gente ci vuole bene, nonostante le macchie di doping che hanno imbrattato questo e quello, campioni e poveracci che tengono l'anima coi denti per arrivare in tempo massimo. E' per questo che la gente ha capito il funerale di ieri, i compagni del morto davanti, come la Motorola per Casartelli, nel '95, e poi la bici numero 114, quella di Fabio, issata sul tetto dell'ammiraglia fino a Parigi, alla sfilata sui Campi Elisi, come una bandiera di metallo, un ricordo piantato nel cervello, un singolare modo, ma trovatene voi un altro, per rendere onore alle armi.
Perché, torno a dirlo, il ciclista si guadagna il pane lontano da casa, come gli emigranti stagionali e i soldati, e dico soldati perché esiste il capitano per definizione, mentre il tenentino è un giovane di belle speranze e il sergente è il più vecchio, tant'è che lo si definisce anche direttore sportivo in corsa. C'è l'attacco improvviso (il raid) e quello preparato a tavolino, ci sono le alleanze, per simpatia o per quattrini, ci sono le grandi manovre, le fughe (ma chi va in fuga nel ciclismo non è un disertore, è un eroe, c'è una bella differenza). Ci sono gli agguati, le imboscate, le trattative segrete, quelli che hanno studiato dicono che il ciclismo è una chanson de geste, tirano in ballo Omero. Ettore era uno pulito, Achille un dopato. E però, però, la madre di Weylandt che lungo la discesa del Bocco s'inginocchia e bacia l'ultimo pezzo di terra che ha accolto il corpo del figlio, questo sì è omerico nel senso di antichissimo e straziante. Poteva maledirli, quella discesa e quel muretto, con l'urlo di tutte le madri, anche le pecore quando si vedono portar via gli agnellini e sanno che cosa li aspetta. Poteva restare di pietra, per non sbriciolarsi sotto l'urto di un dolore troppo forte e inatteso. Si erano mossi da Gand perché l'anno scorso il loro ragazzo aveva vinto la terza tappa e quest'anno la terza tappa gliel'ha portato via. No, s'è inginocchiata e ha baciato la terra, come faceva papa Wojtyla, come ha fatto la Schiavone al Roland Garros, ma qui era diverso.
Qui tante cose sono diverse da quello che sembrano. Anche pedalare in gruppo è rischioso, basta sbandare di cinque centimetri e si fa come una palla da bowling. Si fa fatica sempre, ad attaccare e ad inseguire, a salire e a scendere, a tirare la volata come a vincerla, a fare una cronosquadre oppure una crono individuale. Quale altro sport obbliga, da professionisti, a continuare a pedalare anche espletando le cosiddette funzioni corporali, e non solo di pisciare si parla? Certo, ti puoi anche fermare dietro a un cespuglio come Gaul, che per quella fermata perse il Giro del '57. In casi del genere il codice d'onore (non scritto) stabilisce che non si attacca, ma Bobet e Nencini non la pensarono allo stesso modo o forse (erano i tempi dei veri duri) pensarono che un ciclista che per certe cose ha bisogno d'appartarsi non merita rispetto. Peggio per lui.
Anche questo episodio dimostra che il ciclismo è come la vita e per questo lo capiscono tutti. La gente sa che sulla canna della bici c'è la ventura (l'avventura, anche) e la sventura. Ed è per questo che la morte di Weylandt non appartiene solo alla sua famiglia, né a quella, allargata, del gruppo, ma a tutti quelli che si son fatti il segno di croce quando passava il gruppo, a quelli che non hanno saputo trattenere le lacrime quando una tromba ha intonato il Silenzio oltre il traguardo. Riconoscersi in un momento di dolore, non di vittoria, non è da tutti e io credo che quella sia l'Italia vera, l'Italia che ne ha piene le palle di Berlusconi e dei suoi attacchi ai giudici, di Nicole, di tante cose che riempiono i giornali e i telegiornali, di liti finti e vere, di poteri spartiti, di un Paese col lifting spacciato per realtà, con la guerra che si deve chiamare con un altro nome, con i morti sul lavoro che non hanno l'eco di Weylandt, morto in diretta tv al Giro dei 150 dell'unità d'Italia, un'unità che a volte si fatica a intravvedere, ma per Weylandt c'è stata. Unità. Rispetto. Dolore condiviso. Silenzio.
Pantani l'aveva detto: vado forte in salita per abbreviare la mia agonia. L'aveva detto con estrema chiarezza, con parole più da poeta che da scalatore. Un ciclista non sogna certo di morire, ma sa che può capitargli. Un ciclista sogna la grande fuga, l'andar via da tutti, l'isolamento, tutte cose che sono l'altra faccia della morte ma in qualche modo la evocano. Il ciclista è un personaggio buzzatiano, e infatti Buzzati sui ciclisti ha scritto pezzi bellissimi: a volte, come i messaggeri dell'imperatore, si spinge così lontano che non torna più. Il ciclista può essere Bertoldo. Un vecchio suiveur, ma ormai lo sono anch'io, mi ha raccontato di un gregario toscano al Tour negli anni '50, sono indeciso tra Ferlenghi e Falaschi. Allora, si raccoglievano le dichiarazioni di tutti gli italiani, non solo di Bartali o Coppi. "Com'è andata, eh?" indagò un giovane cronista al termine di un tappone pirenaico sotto un sole che c'è solo sui Pirenei. "Su e giù, su e giù, come pulirsi il culo a revolverate" fu la risposta.
Il ciclista gira il mondo, una volta erano Belgio, Francia e Spagna, adesso anche Malaysia, Qatar, Giappone. Gira il mondo ma non lo vede, non può guardare i paesaggi né i monumenti. Gira il mondo e mangia sempre le stesse cose. Vede solo lettini per il massaggio e camere d'albergo, che nel tempo si son fatte più confortevoli. Ho visto Merckx e altri 80 corridori dormire nel liceo di Luchon su brandine stese nei corridoi, sei docce e sei wc per tutti, prendere o lasciare. Prendere, se non prendi non sei un ciclista e in più l'organizzatore ti sbatte a casa perché non si può rifiutare l'alloggio assegnato. E allora, perché oggi uno non sceglie il tennis, il golf, la pallavolo? "Per passione" rispondono i ciclisti. Passione ha la stessa radice di patire e patire è un po' morire. Questo non spiega tutto ma molte cose sì.
(11 maggio 2011)
mercoledì 11 maggio 2011
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