AMBIENTE & VELENI
Trivelle, il 17 aprile votiamo sì a un referendum che si poteva evitare
di Dante Caserta – vicepresidente WWF Italia
Ed eccoci a poche ore dal silenzio elettorale a chiederci ma questa campagna per il referendum del 17 aprile sulle trivelle ce la potevamo evitare? Vorrei proprio iniziare da questa domanda, non poi tanto provocatoria, per dire: sono tra quelli che voteranno sì al referendum sulla durata delle concessioni delle 88 piattaforme offshore localizzate nella fascia off limits alle trivellazioni delle 12 miglia marine, e nel contempo sostengo che sì, ce lo potevamo evitare. E, partendo da questa ultima asserzione, io mi domando e vi dico.
Mi domando: perché il governo e poi il Parlamento hanno pensato bene, dopo avere risposto adeguatamente a cinque dei sei quesiti proposti da dieci regioni, modificando in particolare le norme dirigistiche del decreto Sblocca Italia, di proporre e approvare quella norma sulle concessioni che possono andare avanti per ladurata utile del giacimento, contestata dalla Corte Costituzionale che ha deciso di porre quel quesito a consultazione popolare?
Vi dico: quello che si sa, e che è diventato vulgata tra gli addetti ai lavori, e che questo colpo di teatro lo si deve agli interessi convergenti delle industrie estrattive (che hanno decine di piattaforme obsolete di cui non vogliono sostenere i costi di smantellamento e di ripristino ambientale delle aree) e ambienti governativi nazionali e di Regioni come l’Emilia Romagna schierate per il NO (di fronte alla costiera romagnola ci sono 16 delle 31 concessioni a coltivare idrocarburi nell’area off limit delle 12 miglia).
Dobbiamo però proprio essere il Paese dei campanelli se delle istituzioni nazionali e regionali pensano che, disattivando con l’astensionismo il referendum per mancato raggiungimento del quorum e quindi confermando la norma censurata dall’Ufficio Centrale per i referendum della Corte di Cassazione e dalla Corte Costituzionale, la Commissione Europea stia a guardare e non proceda subito contro l’Italia con una procedura d’infrazione per violazione delle norme europee sulle concessioni. Tutto questo, quindi, è fatto solo per guadagnare un po’ di tempo in più in attesa che la Commissione Europea inevitabilmente agisca? E’ l’economia bellezza!, si potrebbe dire parafrasando Humphrey Bogart in “Quarto Potere”. Ma siamo sicuri che questa sia economia?
Non lo è per i 360 milioni di euro spesi per portare l’Italia a un referendum che si poteva evitare su una norma illegittima. Non lo è per il Paese, visto che il poco e scarso petrolio italiano presente nei nostri mari servirebbe solo a soddisfare il fabbisogno nazionale di energia per appena 7 settimane e che le piattaforme attive nella fascia delle 12 miglia producono solo l’1.9% del fabbisogno nazionale. Non è per l’occupazione, visto che gli occupati diretti nel settore petrolifero in Basilicata (che produce il 70% del petrolio italiano e il 20% del gas) sono appena 1600, a cui si aggiungono 2400 dell’indotto (dati della Fondazione Enrico Mattei), mentre in questi anni sono stati persi 10mila posti di lavoro nel settore delle energie rinnovabili, per politiche governative sbagliate senza che nessuno dicesse niente.
Tutte queste piattaforme attive o obsolete mettono a rischio le nostre risorse costiere e marine. Il 25% della superficie totale della piattaforma continentale italiana è interessato da attività di sfruttamento di idrocarburi. Nel caso di incidente ad una piattaforma petrolifera nessuno può fermare la marea nera e per decenni si avranno effetti mutageni e cancerogeni sugli organismi marini che sono nella nostra catena alimentare: l’incidente capitato alla piattaforma Deepwater Horizon nell’aprile 2010 ha provocato il più grave inquinamento mai registrato nei mari degli Stati Uniti e danni (comprensivi di quelli ambientali) per 20 miliardi di dollari.Ma a questo quadro bisogna aggiungere i costi, i rischi e le servitù ambientali. Il Wwf ha denunciato, nel suo e-book “Trivelle insostenibili” (Arianna Editrice – da poco pubblicato su tutte le librerie on-line) che ben 42 (il 47,7%) delle 88 piattaforme nella fascia off limits delle 12 miglia non sono mai state sottoposte a Valutazione di Impatto Ambientale, che il 48% delle 31 concessioni ha un’età che supera i 40 anni e che bisognerebbe indagare sulle 31 piattaforme“non eroganti” (il 35% di quelle entro le 12 miglia) per capire quante di queste siano in realtà relitti improduttivi, oltre che sulle 8 (tutte Eni) “non produttive” che devono essere smantellate.
E poi perché correre questi rischi quando è possibile, in particolare dopo l’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici sottoscritto da 195 Paesi, tra cui l’Italia, finalmente fare un piano energetico e climatico (l’ultimo piano energetico nazionale è del 1988) che emancipi l’Italia dalle fonti fossili. C’è chi dice che questo referendum è stato “caricato” di troppi aspetti, di troppi elementi di discussione. E’ che i momenti di confronto in questo Paese sono sempre più rari e questa consultazione referendaria è diventata anche occasione per un dibattito sul futuro sostenibile del Paese che deve andare oltre l’esito del referendum, qualunque esso sia. E questo è un bene, come è un bene che il 17 aprile ci sia comunque un mare di sì.
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