venerdì 13 luglio 2007
Perchè si diventa cavie
Sono varie le motivazioni che spingono a partecipare ai trial clinici per la sperimentazione di farmaci, messe in luce da un'indagine che potrebbe aiutare le industrie e gli istituti di ricerca a risolvere il problema della difficoltà di arruolamento di cavie umane per testare i vari trattamenti. I risultati della ricerca, chiamata 2007 CenterWatch National Survey of Study Volunteers', sono stati presentati in occasione della conferenza annuale della Drug Information Association (DIA), in corso ad Atlanta. L'indagine ha coinvolto 620 americani che avevano partecipato a studi clinici nei mesi di aprile e maggio 2007. Nella media il volontario ha due figli e appartiene alla classe media, nel 34% dei casi guadagna fra i 33mila e 60mila dollari l'anno e abita soprattutto in California, Texas e Florida. Tra le motivazioni, l'81% indica il desiderio di contribuire allo sviluppo scientifico e aiutare sé stesso e gli altri, il 75% quello di trovare nuovi trattamenti, il 51% di ricevere le migliori cure mediche possibili, il 29% la retribuzione corrisposta. Comunque nella decisione finale, il 43% ha assicurato di averla presa autonomamente, il 24% con l'aiuto del medico o dei familiari, mentre una piccola percentuale si è rivolta a gruppi di pazienti, agli amici o a internet. Al contrario, si decide di non aderire allo studio, nel 52% dei casi viene citata la paura degli effetti collaterali, nel 23% la possibilità di essere inclusi nel gruppo placebo, che non riceve cioè il farmaco in sperimentazione, nel 18% eventuali problemi una volta che il trial è terminato.
Tratto da: Doctornews33, 6 luglio 2007 - Anno 5, Numero 121, mail news@doctornews.it
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4 commenti:
La libertà non può stare nelle mani di un anestesista
di Filippo Facci
Mercoledì 25 luglio 2007, 07:00
Questo è uno schifo di Paese dove la politica arranca in un perenne e incredibile ritardo circa gli usi e le consuetudini di quella società che poi siamo noi, è il Paese che avuto bisogno di un pazzo come Marco Pannella per togliere il divorzio e l’aborto dalla clandestinità, di un immolato come Enzo Tortora per accorgersi di una giustizia che fa schifo, di un visionario come Silvio Berlusconi per portare la Tv privata in Italia, di un parvenu come Bettino Craxi per modernizzare il Paese, di un ex vicecommissario del Molise per fermare un finanziamento illecito che rasentava il racket, è il Paese che finisce di costruire la terza corsia dell’autostrada quando servirebbe la quinta.
Di che accidente dunque ha ancora bisogno, questo Paese, per accorgersi che serve una legge per distinguere tra cura e accanimento terapeutico? Per distinguere tra eutanasia e testamento biologico? Tra consenso informato e suicidio assistito? Tra casino e civiltà? Ci vuole fegato per dire che una nuova legge non serva, ci vuole pelo sullo stomaco per sostenere che siano sufficienti gli articoli 13 e 32 della Costituzione laddove parlano della libertà personale e del diritto dei cittadini di non farsi somministrare trattamenti sanitari contro la loro volontà. Ci vuole un Paese, questo, dove il centrista Luca Volontè gridava «assassino» all’anestesista di Welby e dove i radicali di converso ne festeggiavano la morte come se avesse segnato la nazionale.
Ci vuole un Paese dove il fisiologico ritardo culturale della politica si mette nuovamente nelle mani della magistratura, chiamata ormai a decidere su tutto, compresa la differenza tra una buona morte e una buona tortura. Ci sono medici che hanno detto ogni cosa e il suo contrario circa Piergiorgio Welby e Giovanni Nuvoli, l’uomo che da quattro anni chiedeva che gli fosse staccato il respiratore e che perciò si è lasciato morire di fame, intanto il Consiglio Superiore di Sanità chiedeva da anni una nuova legge. Ma una nuova legge non serve, rispondono. In Italia il decesso di centinaia di migliaia di persone è accompagnato con frequenza impressionante da un intervento non dichiarato dei medici: e non lo dico, lo dice un'indagine del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica di Milano; il 3,6 per cento dei medici ha praticato l'eutanasia di nascosto, il 42 per cento la sospensione delle cure di nascosto. Ma una nuova legge non serve, rispondono. Secondo la rivista Lancet, il 23 per cento dei decessi, in Italia, è stato preceduto da una decisione medica, e il 79,4 per cento dei medici è disposto ad interrompere il sostentamento vitale. Di nascosto, ovvio: ma una nuova legge non serve.
Si fanno commissioni su qualsiasi idiozia, ma un’indagine conoscitiva sul fenomeno non interessa a nessuno. Sentite il Foglio di ieri: «L’anestesista di Welby si può essere mosso sul confine di ciò che è lecito e ciò che non lo è, ma quel confine, dice il giudice, non l’ha superato. Perché, allora, sostenere che il proscioglimento di Riccio dimostra la necessità di una legge sul testamento biologico?». Perché? Perché Welby, ad esempio, prima che gli staccassero la spina ha dovuto soffrire per mesi come un cane; perché Giovanni Nuvoli, ad esempio, un anestesista che gli staccasse la spina alla fine non l’ha trovato, e ha dovuto lasciarsi morire atrocemente di fame: e che problema c’è? A che serve una nuova legge?
In fondo basta trovare un anestesista che sia disposto a rischiare anni di galera per omicidio del consenziente. Questo mentre la parte più antilibertaria del Paese vede eutanasia dappertutto: c’è in tutta Europa, è vero, ma qui da noi non la vuole praticamente nessuno, e chi continua a nominarla con toni apocalittici non fa che pescare nel torbido. L’eutanasia è il dare la morte a una persona lucida e malata che espressamente la chieda, mentre il testamento biologico, quello che in Parlamento fingono di discutere da anni, è la dichiarazione dei trattamenti sanitari che vorremmo o non vorremmo ci fossero applicati nel giorno in cui, da malati, non fossimo più in grado di decidere. Sempre che non si preferisca, come oggi, che la sofferenza nostra o dei nostri cari sia risolta clandestinamente oppure discussa pubblicamente a Porta a Porta.
Filippo Facci
http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=195085&START=0&2col=
Speranze pagate care
20/07/07
I farmaci oncologici biologici sono al centro dell’interesse di tutti: di chi li produce, perché garantiscono elevati margini di guadagno, di chi li acquista, perché costituiscono un capitolo di spesa importante, e di chi li dovrebbe (vorrebbe) assumere perché assai spesso vengono presentati come “la cura” del cancro.
Nel caso dell’Italia, questi medicinali assorbono il 30% delle spesa farmaceutica ospedaliera, cioè 1,2 miliardi di euro su 4 miliardi di spesa complessiva della farmaceutica ospedaliera (anno 2006). Questi dati sono stati presentati da Nello Martini, direttore generale dell`Agenzia italiana del farmaco (AIFA), durante il Convegno nazionale "Nuovi farmaci oncologici", organizzato a Roma, il 12 luglio 2007. Martini ha elogiato il primato dell`Italia, che "ha la copertura più alta in Europa" nell`uso di questo tipo di medicinali. Attualmente sono "15.569 le persone trattate" con questi farmaci innovativi. Ovvero pazienti che non hanno avuto benefici "dalle cure tradizionali, e tentano dunque la strada delle molecole intelligenti". Per evitare sprechi e ottimizzare le risorse, è stato introdotto un Registro nazionale finalizzato alla "verifica dell`efficacia di queste molecole per i pazienti in cura. Qualora non dovessero dare i risultati sperati - ha concluso Martini - è l`azienda farmaceutica produttrice, e non il Servizio sanitario nazionale, ad accollarsene la spesa". Un sistema, secondo Francesco Cognetti, direttore dell`Oncologia medica A dell`Istituto tumori Regina Elena di Roma, "brillante, di cui va riconosciuto il merito anche alle industrie del settore, che hanno dato la loro piena disponibilità sul fronte della spesa". Resta il fatto che acquisire queste terapie è molto oneroso, e anche se può esserci il rimborso in caso di inefficacia, nell’anno dell’acquisto sono state sottratte risorse ad altri capitoli di spesa.
Insomma non è facile gestire questo aspetto e non solo per l’Italia: per mesi il New York Times ha dedicato a questi temi articoli e inchieste. Anche perché lì non c’era sempre la disponibilità delle compagnie di assicurazione a garantire questi trattamenti.
Ostruzionismo aziendale
Secondo Umberto Veronesi, invece, per affrontare l’aspetto economico delle nuove terapie "occorrerebbe istituire un`agenzia europea ad hoc che unisca le forze di tutti i Paesi del vecchio continente, visto che una Nazione da sola non può provvedere a risolvere il problema". Lo ha proposto, sempre il 12 luglio a Roma, durante la presentazione della nuova Commissione oncologica nazionale, di cui è stato nominato presidente dal ministro della Salute, Livia Turco. "La questione dei prezzi troppo elevati dei prodotti antitumorali innovativi - ha proseguito Veronesi - investe soprattutto le piccole realtà, cioè chi lavora in trincea. Il fatto è che soffriamo ancora di un ricordo storico sfavorevole nei confronti dell`oncologia: ogni specialista in passato si occupava del suo organo e mancava del tutto l`approccio globale al cancro che oggi invece possiamo offrire. E il problema del costo deriva dal fatto che ogni nuovo farmaco è sempre più preciso e mirato, e ha dunque indicazioni molto rigide, anche se in realtà c`è molta similarità fra i diversi tumori e questi medicinali potrebbero essere impiegati anche per altri usi”. In altre parole, i nuovi biofarmaci agiscono su meccanismi molto fini, che non è detto che siano presenti soltanto in un tipo di tumore: anzi, sono spesso trasversali, si fa per dire, al tumore mammario, a quello del colon e altri. “Ma le aziende farmaceutiche si ostinano a voler restringere le indicazioni” ha proseguito Veronesi “impedendo ai prezzi di scendere. È per questo che i paesi europei dovrebbero unirsi e creare un`agenzia che renda più accessibili le nuove terapie contro i tumori, facendo sì che non siano solo i ricchi a potersi curare".
Ma i benefici ci sono?
Ma c’è anche chi contesta che valga davvero la pena di investire somme così ingenti negli attuali trattamenti biologici. A cominciare dal direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano, Silvio Garattini: "Per alcune nuove molecole, i benefici in termini di aumento della sopravvivenza non giustificano certo la spesa", ha detto a margine del convegno romano. "Non è una cosa pensabile - ha detto - che queste molecole assorbano quasi un terzo della spesa farmaceutica ospedaliera". In futuro, ha proseguito Garattini ci troveremo a garantire solo a pochi questi medicinali o davvero il sistema non reggerà". Ma Garattini non ne fa solo una questione di costi. Per il direttore del Mario Negri, la stessa efficacia di questi farmaci rischia di essere sovrastimata. E, a sostegno della sua tesi, nel corso del convegno mostra diverse analisi condotte su alcuni di questi farmaci. Studi che non evidenziano risultati propriamente brillanti. "Esiste una componente emotiva - sostiene - che, sull`onda dell`entusiasmo iniziale, spinge a sovrastimare i risultati scientifici". E va detto che queste osservazioni si ascoltano sempre più spesso.
Maurizio Imperiali
Tratto da:
http://www.doctor33.it/article.asp?tipo=0&lettera=0&idref=969&aid=54646&sub_res=
Tratto da Farmacista 33
e-newsletter@farmacista33.it
12 settembre 2007 - Anno 3, Numero 148
Quando il farmaco è un miraggio
Molti anziani statunitensi interrompono le terapie farmacologiche perché raggiungono prima deltempo il limite di spesa annuo per l'acquisto di medicinali, presente in molte polizze assicurative sanitarie. Questo l'allarme lanciato dalle pagine della rivista 'Health Affairs' dai ricercatori della Rand Health, associazione no profit che ha l'obiettivo di migliorare l'assistenza sanitaria negli Stati Uniti. I ricercatori si sono concentrati sull'assunzione di farmaci contro ipertensione, diabete, depressione, ulcera e problemi cardiaci all'interno di un campione di oltre 60mila anziani fra il 2003 e il 2005. I partecipanti allo studio godevano, si fa per dire, di assicurazioni di diverso tipo: alcuni avevano un tetto di spesa di mille dollari l'anno per l'acquisto di medicinali, altri un limite di 2.500 dollari e altri ancora nessun limite preciso. Secondo le analisi, fra il 6% e il 13% delle persone obbligate a rispettare il massimale lo ha raggiunto nel corso di ciascun anno analizzato durante lo studio e la maggior parte ha dovuto 'arrangiarsi' per oltre 90 giorni. E fra i pazienti che hanno dovuto interrompere le cure, oltre il 50% non ha ricominciato la terapia nemmeno durante i tre mesi successivi al ristabilimento dei benefici finanziari. "Stupisce - sottolineano gli autori - come molti pazienti non abbiano rimediato a questi problemi passando all'acquisto di farmaci generici, più economici rispetto alle specialità. E nemmeno le istituzioni hanno preso alcun provvedimento in merito".
Tratto da Farmacista 33
e-newsletter@farmacista33.it
12 settembre 2007 - Anno 3, Numero 148
La cultura pesa sulla schiena dei bambini
Sono 7.300 le lesioni riportate dai bimbi per zaini scolastici troppo pesanti riscontrate, nel 2006, nei pronto soccorso degli Stati Uniti. La Consumer Product Safety Commission riferisce che i problemi più comuni sono distorsioni e strappi muscolari. "Visitiamo numerosi bambini durante l'anno scolastico che soffrono di mal di schiena - afferma Robert Bruce, ortopedico pediatrico della Emory School of Medicine - Molti di loro accusano i pesanti zainetti pieni di libri, attribuendogli la colpa del malessere". L'American Occupational Therapy Association afferma che i bambini non dovrebbero portare in spalla più del 15% del loro peso corporeo. Quando lo zaino supera questo valore, le conseguenze sono formicolii, intorpidimento e segni rossi sulle spalle. Lo specialista consiglia ai suoi pazienti di portare zaini ergonomici. "Penso che gli zaini con le rotelle - continua Bruce - rappresentino la soluzione migliore, anche per i più piccoli. Inoltre le cinghie più larghe sulle spalle e quelle alla vita aiutano a distribuire meglio il peso".
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