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1 Dicembre 2009 ANNIVERSARIO Bhopal, un disastro senza vera giustizia
Enorme e silenziosa, la carcassa dello stabilimento della Union Carbide soffoca con la sua ingombrante presenza la zona nord di Bhopal, affollata capitale del Madhya Pradesh. Le gigantesche torri grigie, visibili anche a chilometri di distanza, proiettano la loro ombra irregolare sul cortile sterrato. Qualche ciuffo d’erba si è insinuato qua e là: sui tubi scrostati, sui monumentali invasi dove un tempo c’era il pesticida, sui muri anneriti. È l’unica traccia di vita. Il resto è immobile da 25 anni.
La Union Carbide, succursale locale del colosso chimico americano, si è fermata improvvisamente alla fine del 1984. Pochi giorni prima, nella notte tra il 2 e il 3 dicembre, 40 tonnellate di gas velenoso potentissimo, l’isocianato di metile, fuoriuscirono dalle vasche dell’azienda per inondare la città. Mezzo milione di persone – un abitante su tre – inalò quella miscela micidiale. Il più grave disastro industriale mai accaduto. La stime ufficiali parlano di migliaia di morti. L’azienda ne ha ammessi 3.800. Per le inchieste indipendenti vi sarebbero state 25mila vittime. Un terzo – secondo l’Indian Council of Medical Research – si sarebbe spento nelle prime 72 ore. Il resto sarebbe deceduto negli anni successivi, dopo terribili sofferenze. Tuttora, oltre centomila persone soffrirebbero di disturbi cronici, la maggior parte gravi, a polmoni, nervi, occhi e muscoli. Le conseguenze del disastro, poi, si ripercuoterebbero sulle nuove generazioni. Uno studio, pubblicato sul Journal of American Medical Association nel 2003 ha riscontrato gravi difetti di crescita e sviluppo nei figli delle persone esposte alla nube tossica. L’anno scorso, una nuova analisi epidemiologica del Trinity Clinical Trial ha calcolato che l’incidenza di tali disturbi è dieci volte superiore alla media.
«Per noi è la fabbrica della morte – dice Rachna Dhingra, coordinatrice della International Campaign for Justice in Bhopal –. Non solo per quello che ha fatto allora. Ma perché continua a uccidere, avvelenandoci lentamente, giorno dopo giorno». L’area intorno all’impianto non è infatti mai stata bonificata. Né dai vertici della multinazionale, acquistata nel frattempo dalla Dow Chemicals, né dal governo indiano. Il braccio di ferro tra i due è andato avanti per anni. «Il risultato è che il sito è rimasto tossico » , aggiunge con un sorriso amaro Rachna. Gli attivisti – che da un quarto di secolo lottano in difesa delle vittime e dei loro familiari – non hanno dub- bi: il suolo di Bhopal, le falde acquifere, l’aria sono contaminati. Della stessa opinione anche varie Ong e istituti di ricerca. Le analisi, realizzate da Greenpeace nel 1999, hanno trovato, nel terreno e nelle riserve idriche circostanti, 12 diverse sostanze chimiche tossiche, compreso il mercurio, in quantità 6 milioni di volte superiori ai livelli accettabili.
E da allora, la situazione non sarebbe migliorata. A giugno, un’altra indagine ha mostrato che la percentuale di composti chimici organici sarebbe 2.400 volte più alta della soglia di tollerabilità. «Ecco perché la gente continua ad ammalarsi – afferma con tono secco Rachma –. Ben 30mila persone abitano nelle 16 comunità adiacenti all’ex Union Carbide e bevono l’acqua avvelenata da metalli, cloruri e pesticidi. Per il governo indiano, la tragedia di Bhopal si è chiusa vent’anni fa quando ottenne dall’azienda una compensazione di 470 milioni di dollari per le vittime e le loro famiglie. «Detta così sembra una bella somma – sospira Rachma –. Peccato che, tolte le parcelle agli avvocati e le varie tangenti ai funzionari corrotti, le persone interessate abbiamo ricevuto appena 500 dollari a testa. Non sono bastati nemmeno per pagarsi le cure... » . Il risarcimento è stato assegnato solo a chi è stato colpito direttamente dal gas. Sono, invece, rimasti esclusi quelli che hanno manifestato sintomi mesi dopo l’incidente o i figli di genitori contaminati. Nessun indennizzo è stato mai riconosciuto a chi vive nei paraggi della fabbrica e beve l’acqua delle falde circostanti. Perché per gli esecutivi – centrale e locale – non esistono prove certe della tossicità dell’area. Gli studi che affermano il contrario – dicono – sono «manipolati».
E citano, a sostegno della loro tesi, due recenti indagini, appena pubblicate dal Defence Research and Development Establishment e dal National Environmental Engineering Research Institute, secondo cui il grado di contaminazione sarebbe troppo basso per causare danni alla salute umana. Su questa base, si è deciso di spalancare i cancelli dell’impianto dismesso ai visitatori in occasione del 25esimo anniversario del disastro. La 'fabbrica della morte' verrebbe, così, trasformata in un 'museo della memoria'. Gli attivisti, però, non vogliono. «Quella di Bhopal non è una tragedia del passato, da commemorare – dicono –. La catastrofe non è mai finita. La viviamo tutti i giorni, da 25 anni. E continueremo a viverla fino a quando l’intera area non verrà finalmente ripulita ». Per il momento, la loro opposizione è riuscita a far slittare l’iniziativa: l’apertura viene rinviata di settimana in settimana. L’ex Union Carbide resta chiusa e immobile. A un quarto di secolo dal 2 dicembre, la sua ombra ingombrante pesa ancora su Bhopal.
Lucia Capuzzi
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