martedì 20 gennaio 2015

Quale ruolo per i partiti?

Segnalo una riflessione di Nicola Colaianni pubblicata sul sito di Aldo Giannuli:

Su alcuni caratteri d’urgenza di una legge sui partiti

Molto volentieri ospito questo intervento dell’amico, giurista ed ex parlamentare Nicola Colaianni. Buona lettura! A.G.
I partiti sono in crisi. Quelli che abbiamo conosciuto nei primi cinquant’anni di repubblica, così forti e pervasivi da aver dato luogo alla partitocrazia, non esistono più. Non val neanche la pena criticarli: per riprendere una battuta, mi sembra, di Gaetano Silvestri, commetteremmo un vilipendio di cadavere.

Ormai sono diventati tutti (quelli rappresentati in Parlamento) partiti personali. L’ultimo a soccombere a tale destino è stato il PD, divenuto, come dice Ilvo Diamanti, PDR, partito di Renzi. E il patto del Nazareno, dai contenuti misteriosi e opachi, ha sancito a livello istituzionale la scomparsa dei partiti, fatti di assemblee che previamente discutono e decidono la posizione che poi sarà esposta all’esterno dai propri rappresentanti, in favore dei “cerchi magici” di due persone, capaci di imporre le loro scelte (non definite ma rimodulate a tratti successivi) anche ai loro oppositori interni, che le voteranno perchè there is not alternative (tale non essendo l’elezione anticipata, in cui non verrebbero ricandidati).
Ma è un male, questa crisi, per la democrazia? Non può vivere una democrazia senza partiti? L’antipartitismo, ormai diffuso anche in Italia – sotto forma di movimenti, come i 5 stelle, o di primarie aperte, come nel pd e nelle altre forze di centrosinistra -,  è un comportamento concludente in fatto per la risposta affermativa. Con una dignità anche ideologica, se vogliamo: i partiti propugnano una visione di parte, sono divisivi, ostacolano una soluzione condivisa quale potrebbe essere favorita in una democrazia deliberativa da un franco scambio pubblico di opinioni fra cittadini.
In realtà, senza i partiti, verrebbero propugnate opinioni corrispondenti ad interessi privati, personali o di gruppi, appunto, d’interesse: di lobbies. Sono i partiti che storicamente hanno compiuto un discernimento di tali posizioni, le hanno integrate sotto un comune denominatore, hanno facilitato, a partire dalla loro parzialità ricondotta politicamente a dimensioni assolutamente inferiore a quella delle lobbies, il soddisfacimento di un interesse quanto più generale.
Il riflesso istituzionale della crisi dei partiti è, perciò, notevole: viene meno il maggior contrappeso al dominio, altrimenti incontrollato, del governo, e in particolare del presidente del consiglio, nel continuum maggioranza parlamentare – governo – presidente del consiglio.
Il sistema di checks and balances disegnato dalla Costituzione per ridimensionare questa concentrazione di potere è piuttosto scarso: la Corte costituzionale, un presidente della Repubblica super partes, una magistratura indipendente da ogni altro potere. Ad irrobustirlo sono state soprattutto le formazioni sociali, che hanno svolto fuori del Parlamento un ruolo di opposizione e di promozione che s’è incuneato in quel continuum: basti pensare al ruolo dei sindacati per orientare le politiche sociali nei primi vent’anni repubblicani, prima dello Statuto dei lavoratori, e appunto a quello dei partiti, non appiattiti sul governo che pure sostenevano, ma a ragion veduta, tanto da poterlo bollare semplicemente come “amico” (il governo Pella) o da invitarlo esplicitamente a dimettersi senza affrontare il voto di fiducia (Tambroni).
In questo convegno si sono ben analizzate le varie cause della crisi dei partiti. Credo che però sia opportuno contestualizzarla nella più ampia crisi delle formazioni sociali e del loro ruolo di contrappeso al potere governativo. Nel disegno del Costituente le formazioni sociali hanno il compito di attuare quel pluralismo sociale capace di orientare, limitare, condizionare l’esercizio del potere: la loro azione è un po’ la mossa del cavallo, capace di squilibrare il percorso rettilineo che dal suffragio elettorale porta direttamente al vertice governativo (o addirittura presidenziale). Ma gli ultimi anni dimostrano la graduale dissolvenza di questo ruolo, certo per incapacità interne di partiti e sindacati ma anche per la tendenza del potere di rivolgersi direttamente al popolo, agli individui, senza l’intermediazione delle formazioni sociali, da cui la persona – spiegò Dossetti, seguito da Togliatti – “subisce l’integrazione”.
La democrazia plebiscitaria, che contempla una convocazione periodica del popolo solo per dare un’investitura, si presenta ordinariamente, secondo la definizione di Bernard Manin, come “democrazia del pubblico”: tra gli altri caratteri, elezione sulla base dell’immagine, e non della fedeltà ad un partito, non coincidenza tra opinione pubblica ed espressione elettorale, mancanza di dibattito all’interno dei partiti (ma nei massmedia), negoziazioni non tra partiti ma fra governo e gruppi d’interesse.
Non c’è motivo di stracciarsi le vesti. In fondo siamo pur sempre nell’ambito della democrazia rappresentativa, di cui la democrazia del pubblico costituisce una evoluzione (o involuzione, ma non una deviazione): rimangono libere elezioni, libera discussione nello spazio pubblico, decisioni sottoposte a tale discussione. Ma non è più la democrazia dei partiti, cioè la forma della democrazia rappresentativa disegnata dal Costituente all’art. 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Giusta l’insistenza di questo convegno sulla necessità, sottolineata all’indomani della caduta del muro di Berlino e ribadita poco prima della sua scomparsa da Leopoldo Elia, di una legge sulla vita interna dei partiti che preveda una procedura democratica per scegliere i candidati: o – egli suggeriva – con metodi di selezione interna garantita, come in Germania, o con primarie, come in USA.
Credo però che l’esperienza finora fatta induca a dubitare della compatibilità con il metodo democratico delle primarie cosiddette aperte. Non tanto per le scelte istituzionali: sindaco, presidente della Regione, candidati al Parlamento (dubbi molto forti sulla scelta del presidente del Consiglio a Costituzione vigente, che ne  riserva la scelta al Presidente della Repubblica). Ma soprattutto mi sembra che vada in senso antiorario rispetto al metodo democratico riservare la scelta del segretario di un partito non solo agli iscritti ma anche ai simpatizzanti. Se la democrazia presuppone il dialogo tra le parti, la possibilità – come dice Kelsen – di “capirsi” tra  maggioranza e minoranza  attraverso discorsi e repliche, argomenti e contrargomenti, è evidente che tale possibilità si dà solo per gli iscritti ai partiti, per coloro che ne frequentano i luoghi, non certo per chi passa da un gazebo ad esprimere un voto che non è frutto di un ragionamento preventivo. I gazebo occasionali sono dei non-luoghi – per dirla con Marc Augé -, privi di senso politico in sé, passaggi, come gli aeroporti o le stazioni, per andare altrove non certo per alimentare il processo di persuasione reciproca: sono la morte del partito (del resto, a Bari per le recenti primarie per il presidente della Regione è stato  affittato un locale sovente utilizzato da un’agenzia di pompe funebri, allocata nel locale attiguo).
Che ciò sia un male inevitabile per il voto, per dir così, istituzionale non significa che non si debba evitarlo là dove è possibile, ridando spazio alla discussione (così, non tanto curiosamente, era intitolato il settimanale politico della Democrazia cristiana), altrimenti sostituita da vuoti tweet.
Tanto più ciò dovrebbe essere evitato quando lo statuto del partito preveda che il segretario sia il candidato ufficial  alla presidenza del Consiglio: si forma in tal modo una specie di corto circuito democratico per cui chi vince sulla spinta emotiva dell’immagine ai gazebo scala non solo il partito ma per ciò stesso anche il governo (com’è avvenuto con l’attuale presidente del consiglio). Le primarie aperte per la scelta del segretario – oltretutto non regolabili per legge, dipendendo dall’autonomia delle mutevoli maggioranze dei partiti – sono un elemento strutturalmente estrinseco rispetto alle procedure democratico-parlamentari, che rischia di alterarne l’ordinario e delicato funzionamento, come ogni elemento spurio (mutatis mutandis, ovviamente, si pensi all’alterazione prodotta da un altro pseudo elemento di partecipazione popolare, con gli strumenti allora disponibili, quale la “marcia su Roma”).
Urgente poi, secondo me, è la funzionalizzazione dei partiti esclusivamente alla politica,separando questa dal governo e dall’amministrazione.  Il che significa separare i partiti dalle istituzioni pubbliche: dallo Stato fino all’ultima delle aziende municipalizzate. I partiti dovrebbero riappropriarsi della formazione e della scelta dei candidati, della determinazione dei programmi, senza occuparsi anche della gestione della cosa pubblica, in modo da poter esercitare il controllo sugli eletti nell’interesse della collettività. Questa separazione è tanto più urgente nel momento, come l’attuale (le cronache di Roma ne offrono una prova ulteriore), in cui la corruzione nella gestione della cosa pubblica investe non più il singolo atto amministrativo ma l’intera funzione svolta dal pubblico amministratore.
C’è un’intercettazione all’interno dell’indagine su “mafia capitale”, in cui uno dei principali imputati (Buzzi), parlando di un candidato assessore, dice che “è un ladro rubava per il partito, ma tanta roba gli è rimasta attaccata quindi non rubava per il partito” e descrive subito dopo la manovra messa in atto per far saltare quella candidatura: “allora abbiamo avvisato i nostri amici, i capigruppo, i nostri amici e si è alzato un po’ il fuoco de sbarramento”. Il “mondo di mezzo” è fatto di questa corruzione strutturale, non di dazioni di danaro o altra utilità per compiere, omettere o ritardare uno o più atti di ufficio (secondo, cioè, le fattispecie descritte dal codice penale) ma per mettere al servizio di interessi privati l’intero ufficio, l’intera funzione svolta dal pubblico ufficiale.
I partiti – a questo punto nulla più che un franchising adottato da gruppi d’interesse privato, senz’alcuna progettualità ideale – sono completamente integrati in questo melting pot, le mille miglia lontani dallo svolgimento della loro funzione costituzionale.
Come restituirli a questa funzione, se non separandoli dalla gestione, e cioè fissando l’incompatibilità tra cariche di partito e cariche istituzionali? La legge comunale la prevede per gli assessori comunali, che, se consiglieri, devono dimettersi dalla carica elettiva. Bisognerebbe introdurla ad ogni livello ma la tendenza va in senso contrario, come dimostrano gli statuti e le prassi dei partiti di centrosinistra, ispirati al principio, che si credeva berlusconiano, dell’uomo solo al comando.
Certo, bisognerebbe andare oltre, condividendo la proposta di Luigi Ferrajoli sulla separazione tra istituzioni di governo – aperte, con i limiti detti, all’azione dei partiti che ne determinano la politica – e istituzioni di garanzia, soggette solo alla legge e, quindi, sottratte all’influenza dei partiti. Pensiamo ad un consiglio superiore della salute o dell’istruzione con gli stessi poteri e le stesse prerogative del consiglio superiore della magistratura. Ma per far questo occorrerebbe una corposa riforma costituzionale, che non est de hoc mundo.
Una legge sui partiti, che articoli le altre proposte qui fatte, appare invece non irraggiungibile. E costituirebbe un antidoto serio ai guasti che la legge elettorale in gestazione rischia di perpetuare, almeno per la scelta dei candidati, in sostanziale continuità con l’incostituzionale porcellum e di aumentare in combinazione con una revisione costituzionale, votata ad una accentuata verticalizzazione del potere e ad una sua, anche formale, concentrazione personale.
Nicola Colaianni
Intervento a margine di un convegno su “i partiti e la democrazia in Italia” (Bari 10-11 dicembre 2014).

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