venerdì 17 aprile 2009

Il giudizio di Dalla Chiesa sul PD

Sì. lo so che è un articolo lungo...ma consiglio agli amici del PD di leggerlo tutto !

FOTO DI GRUPPO CON MACERIE
Scritto da Nando dalla Chiesa , Thursday 16 April 2009
L'intervento di Nando dalla Chiesa sul nuovo libro di Antonio Padellaro Io gioco pulito (Baldini Castoldi Dalai, 2009)

Sì, siamo messi male davvero, caro Antonio. Noi come sinistra italiana, intendo. E invece vedo intorno a me una folla di persone convinte che il disastro sia rimediabile a breve. Basta, reclamano, con il partito liquido. Un bel congresso salvifico del Pd, magari, in cui si rimettano le cose in ordine, come si fa in un partito “vero”. Quasi che non ci fossimo abituati da anni a fare congressi di partiti “veri” senza votare; ogni volta pronti a plebiscitare un candidato unico e a formare i gruppi dirigenti approvando listoni di nomi “prendere o lasciare”. ...

1 commento:

Franco Gatti ha detto...

FOTO DI GRUPPO CON MACERIE

Scritto da Nando dalla Chiesa
Thursday 16 April 2009

L'intervento di
Nando dalla Chiesa
sul nuovo libro
di Antonio Padellaro

Io gioco pulito
(Baldini Castoldi Dalai, 2009)

Sì, siamo messi male davvero, caro Antonio. Noi come sinistra italiana, intendo. E invece vedo intorno a me una folla di persone convinte che il disastro sia rimediabile a breve. Basta, reclamano, con il partito liquido. Un bel congresso salvifico del Pd, magari, in cui si rimettano le cose in ordine, come si fa in un partito “vero”. Quasi che non ci fossimo abituati da anni a fare congressi di partiti “veri” senza votare; ogni volta pronti a plebiscitare un candidato unico e a formare i gruppi dirigenti approvando listoni di nomi “prendere o lasciare”. Sproloqui di persone accozzate insieme bizantinamente nel solo rispetto dei dosaggi di corrente, anch’essi - fra l’altro - privi di qualsiasi verifica di consenso preventivo. Votazioni in cui il massimo brivido di indisciplina e di ribellismo è rappresentato, agli occhi di tutti e della propria coscienza, da un silenzioso cartellino di astensione. Al congresso, al congresso, si grida dunque con lo stesso entusiasmo in cui sotto le monarchie i borghesi liberali reclamavano lo Statuto. Solo che nelle grida di oggi si nasconde l’ipocrisia di chi rabbonisce i dissensi e le critiche promettendo e forse promettendosi un congresso “vero”, con le tesi contrapposte, e un confronto approfondito, ci mancherebbe altro, sapendo che non ci sarà. E che una volta di più calerà su centinaia di migliaia di iscritti un accordo preconfezionato tra leader massimi di cui ormai si ignora il vero consenso elettorale, come la vicenda delle ultime amministrative romane ha tragicamente dimostrato.

Perché, caro Antonio, il vero problema (e comunque senz’altro uno dei problemi più acuti) è che alla testa del partito democratico si sono insediate persone che hanno in fastidio la democrazia. Non amano le possibilità di scelta che si accompagnano alla parola democrazia, questa parola fulgida e bellissima che da decenni mette in luce le miserie culturali di intere classi dirigenti, sempre spaventate di lei, della sua forza, delle sue domande esigenti; e che l’hanno difesa sul serio solo quando, sotto l’offensiva del terrorismo, la democrazia aveva finito per coincidere con il sistema dei partiti, ossia con loro.

Mi sono sempre chiesto, ad esempio, quale demone mentale abbia spinto tutte, e dico tutte le componenti del nascente del Partito democratico a dar vita all’assemblea costituente attraverso un sistema elettivo che sembrava figlio della tante volte esecrata “porcata di Calderoli”; perché cioè si sia deciso di votare su liste bloccate senza dare possibilità di scelta a milioni di elettori. Che cosa ostasse a dar corso all’ operazione politica più elementare e più conforme a un partito che pone al centro della sua identità la democrazia. Non la giustizia sociale, non la patria, non l’Europa. Ma la democrazia. Mi sono anche domandato tante volte quale visione sciagurata di partito avesse portato tutte, e di nuovo sottolineo il “tutte”, le componenti del nuovo partito a immaginare un’assemblea costituente di quasi tremila persone. Ossia il nulla, per quanto gradevole e suggestivo sia stato vedere finalmente in un luogo rappresentativo della politica tante donne e tanti giovani. Perché tremila persone non sono un’assemblea che decide. Sono una platea che ratifica, sono un pubblico da Telegatto, un gioioso sfondo di plaudenti in grado di dare grandiosità estetica a una ripresa televisiva. Non ci voleva molto a saperlo. Anche chi vi era arrivato fiducioso nel nuovo partito ha subito capito di essere “pubblico”. Non per nulla la platea si è già dimezzata. E chi se ne è andato non parteciperà al congresso. Anche se sarà un congresso “vero”.

Che mortificazione fu in quella prima assemblea costituente celebrata a Milano (bisognava sfondare al Nord, vero?) vedere elencati a passo di carica, mentre i costituenti già erano andati o stavano andando a prendere i treni, i componenti delle varie commissioni. Centinaia di nomi annunciati in successione, senza che nessuno li avesse votati, senza che nemmeno i diretti interessati lo sapessero. Centinaia di nomi, quasi tutti noti e di esperienza, che alla fine non sarebbero stati ascoltati, nemmeno nelle loro indicazioni più generali. Fu come tirar giù la maschera e dire: signori, ecco a voi il nuovo Partito. In quel momento il partito democratico era già morto. Almeno quello che avevamo immaginato in tanti. Non pensando di mettere insieme le “grandi tradizioni politiche” del paese, queste grandi tradizioni alle quali stiamo pagando da decenni un pedaggio insopportabile. Ma pensando che ci si sarebbe potuti accingere a trasfondere in una avanzata idea di democrazia una pluralità direi infinita di culture, di biografie, di esperienze, di domande di senso. Così era stato fatto credere che sarebbe stato. Mentre la cuoca preparava in cucina un mirabile menù a due portate: ex popolari ed ex comunisti. Il resto contorno; meglio se molto, molto leggero.

Sembrava di assistere al suicidio progressivo di un progetto. E come non bastasse, procedeva inesorabilmente un altro suicidio: quello del governo Prodi. Lo strumento più grande che avevamo a disposizione per fare capire agli italiani di che pasta fossimo fatti, quale cultura potessimo e sapessimo mettere in campo per governarli. Una prova fallimentare. Non per la saggezza di Prodi. E nemmeno per le cose buone fatte, che furono molte. Ma per la sensazione di lontananza dai bisogni popolari e dagli interessi del paese che riuscimmo a dare. Per l’incapacità di sembrare positivamente diversi. A partire dalla bulimia di posti, dalla mediocrità e dall’astuzia levantina che trasparivano dai personaggi, dalle dichiarazioni a raffica, dalle guerre intestine dei comunicati e delle interviste. Un colpo a destra, un colpo a sinistra, un’ambizione di qua, un’ambizione di là, cadde il governo, benché da sempre sapessimo che se avessimo anche con il mignolo sinistro contribuito a farlo cadere ci saremmo resi responsabili di restituire il paese a Berlusconi. Veltroni pensò, o qualcuno gli fece pensare, che con qualche operazione estetica (berlusconiana, starei per dire) avrebbe potuto indovinare il colpo di reni vincente. Non gli ho mai rimproverato, devo dire la verità, di avere scelto di andare solo noi con Di Pietro alle elezioni. Sono sempre stato un fautore delle grandi alleanze, ma con quello che offriva il convento era davvero difficile praticarle. Assurdo immaginare di riproporci agli elettori tutti insieme appassionatamente senza suscitare in loro una sensazione di nausea. Ma questo avrebbe dovuto obbligare a un di più di serietà e di affidabilità, di forza attrattiva proprio verso l’elettorato di sinistra. E invece il suicidio fu presto completato. Le liste elettorali di Bettini e Franceschini, presentate alla fine in pubblico con tanta giuliva soddisfazione, furono un altro colpo durissimo per l’immagine del partito che stava nascendo. Sai bene che questo è per me un capitolo amaro, benché ormai abbondantemente superato sul piano delle gratificazioni civili e intellettuali. Ma penso di essere oggettivo se dico che il partito venne trattato alla stregua di un rotocalco o di un album delle figurine. Senza relazione con il progetto da costruire, senza relazione con il prestigio e con i patrimoni di consenso personali, fu una corsa forsennata (e un po’ demenziale) a potere esibire generali, industriali, figli di industriali, magistrati, scrittori, scienziati. E tanti giovani, si annunciava con sussiego; ovvero sconosciuti che personalmente non avrebbero preso cento voti, ma a cui le liste bloccate garantivano l’ elezione. Non giovani capaci di esprimere il mondo dei ventenni o dei trentenni, non leader o esponenti di movimenti (le occupazioni delle accademie di belle arti o le cooperative sui beni confiscati alla mafia), ma parenti o segretari o portaborse dei dirigenti. Erano loro il “rinnovamento”. Ne venne fuori una creatura centauro: metà crocchio di correnti, metà album di figurine. Metà muffa metà niente. Almeno così la giudicò l’elettorato se è vero che -secondo ormai tutti gli studiosi- le elezioni sancirono, più che la vittoria di Berlusconi, la disfatta della sinistra. Il resto è andato come doveva andare, con Veltroni che ha pagato più di quanto dovesse, ma che purtroppo ha regalato a tutti, dopo la sconfitta in Sardegna, quella fuga davanti alla assemblea dei “suoi” militanti che difficilmente potrà essere dimenticata. Anch’essa segno della qualità del partito.

E il resto?, dirai forse tu. Già, il resto. Devo forse soffermarmi sulla inconsistenza e sui narcisismi inarrivabili della cosiddetta sinistra radicale? Convinta di non avere raggiunto il fatidico 4 per cento per colpa di Veltroni, quando le è arrivato addosso come una mazzata (inaspettata) il giudizio degli elettori? Questa sinistra così simile a quei socialisti convinti di avere perso nel ’92 per colpa dei pubblici ministeri milanesi? Leggo che nel suo ultimo libro-intervista Fausto Bertinotti ha fatto una radicale autocritica, parlando di una “casta di sinistra”. Be’, bastava avere gli occhi un po’ aperti e quella casta la si sarebbe potuta vedere già uno o due anni fa. O addirittura, mi voglio rovinare, anche nel ’98, quando il primo governo Prodi venne fatto cadere, subito dopo il successo dell’euro, sull’altare delle 35 ore. Ridetto ora sembra una barzelletta. E invece fu storia vera.

Non hai speranze?, mi chiederai. Sarò schietto per come mi conosci, Antonio. La situazione è davvero critica, e non se ne uscirà facilmente. Ci vuole un leader, ci vuole un leader vero, ripetono in tanti. Troviamo il nostro Obama. Già sentito cento volte nel ’94, dopo il primo trionfo di Berlusconi. Un leader come lui ci vuole, si diceva. Poi abbiamo vinto due volte con il candidato più lontano possibile dai modi e dal carisma televisivo di Berlusconi. Siamo dipendenti anche in questo. E in fondo Veltroni è stato dipendente in questo a sua volta. Quanto a Obama, per trovarne uno occorrerebbe anzitutto che le primarie e ogni genere di elezioni non fossero truccate, che fossero libere veramente. Io sono convinto che la democrazia italiana, per quanto ammaccata, abbia molte risorse al suo interno. Che il nostro linguaggio, depurato di ogni ideologia, possa ancora parlare ai cittadini comuni, possa ancora fare scattare emozioni e domande e speranze. Ma bisogna che questi cittadini comuni ci sentano vicini a loro, specie nei loro problemi più quotidiani, dai servizi sociali fino al fisco e alla sicurezza, ossia le due questioni su cui abbiamo buttato via milioni di voti gratis. Vuoi perché nelle correnti di partito o tra professionisti della politica i problemi di chi -imprenditore, artigiano, commerciante o professionista- fa i conti con le assurdità e le vessazioni del fisco proprio non trovano posto. Vuoi perché se comanda l’ideologia (starei per dire “le grandi tradizioni”…) quello della sicurezza viene trattato sprezzantemente come un “tema della destra” (ricordo ancora quando dieci anni fa andai, unico esponente cittadino della sinistra, a una manifestazione contro gli spacciatori a Baggio, periferia di Milano, e venni accolto da un gruppo di cittadini che mi dissero testualmente “grazie per non averci costretto ad andare dietro i fascisti”). C’è un’intelligenza diffusa e viva della sinistra, voglio dire, anche se ormai in sofferenza e in diffidenza. Ma a questo magma, che ancora è la fonte di energia per tanta democrazia italiana, deve essere offerto altro; e solo “altro” può ricomporlo, riportarlo allo stato politico solido, dargli identità e orgoglio.

Da tempo mi sono convinto che la sinistra italiana, anche nella sua variante allargata di centrosinistra, abbia, nel ’92-’93, solo differito la propria fine. Sotto le macerie di tangentopoli caddero infatti, questo è vero, i gruppi più corrotti; ma a essere chiamata in causa fu un’intera idea di politica, il recinto culturale e morale in cui quei gruppi avevano potuto crescere, nonostante la denuncia di Berlinguer. Craxi fu più arrogante di altri, non di tutti, e fu il simbolo di quella cittadella-Stato che affondava in crisi di consensi. Certo fu un paradosso della storia che le macerie del Muro non ricadessero prima di tutto sull’ex Pci. Il fatto è che esse si sommarono alle altre, di macerie, quelle di Tangentopoli; sicché chi stava all’opposizione ne uscì meno peggio e per giunta senza più addosso il ricatto della guerra fredda. L’iniezione di democrazia portata dalle elezioni dirette dei sindaci consentì di mettere le persone davanti ai partiti, dando nuovo e insperato slancio, nelle città, al centrosinistra. Venne l’invenzione felice dell’Ulivo a dare benzina a quel pezzo di prima Repubblica sopravvissuto a se stesso. E nel ’96 fu vittoria. Fortunosa comunque, visto che la Lega aveva giocato in proprio. Ma quei partiti, con i loro leader inamovibili, anziché essere grati all’Ulivo iniziarono a lavorare per indebolirlo, ripescandolo ogni volta dal loro sgabuzzino mentale solo in vista delle prove elettorali. Perdemmo poi nel 2001, dividendoci per tre, con un numero di voti complessivamente superiore a quelli del centrodestra. E di nuovo nessuno pagò. Mentre i partiti erano ancora storditi dalla sconfitta, il centrosinistra all’opposizione ricevette una spinta formidabile dai girotondi, che, anche con l’aiuto dell’ “Unità” tua e di Furio, misero ulteriore benzina nel suo serbatoio, almeno quanto bastò a vincere in serie tutte le elezioni dal 2002 al 2006. Ma, esattamente come era stato rinnegato l’Ulivo, così vennero rinnegati anche i movimenti civili. La politica come monopolio, e la cuoca sempre lì a preparare il suo ossessivo menù a due portate, ex comunisti ed ex popolari. Con i loro giovani assistenti, per garantire l’eternità della specie.

Ora la fine che già il ’92 avrebbe dovuto dichiarare è arrivata. Quella foto di gruppo che ancora si agita promettendo nuove “sfide affascinanti”, controllando e contendendo tessere, cercando posti, tentando disperatamente di far da tappo a ogni domanda di cambiamento, è finita. La foto di gruppo. Sì, è questo il concetto che meglio sintetizza i problemi di cultura e di progetto, di qualità e di umanità, di affidabilità e di prestigio. Non Obama, ma la foto di gruppo. Che va cambiata senza fretta, con la pazienza dei rivoluzionari, anche se lavorando assiduamente e senza stancarsi nella giusta direzione. I miracoli, caro Antonio, non li fa nessuno (oddio, in verità abbiamo chi li sa fare, ma in negativo…). Forse la storia accelererà però qualche processo. Anche vertiginosamente. E’ possibile, è successo più volte, anche di recente. E allora un largo gruppo di persone senza schizzi di fango addosso e con l’energia necessaria dovrà farsi trovare pronta all’appuntamento. E a gettarsi nella mischia. Senza regalare più né idee né fatica né benzina a chi ha dimostrato troppe volte di non meritarle. Ti saluto con amicizia, e grazie di tutto,
Nando

Tratto da: http://www.nandodallachiesa.it/public/index.php?option=com_content&task=view&id=1070&Itemid=123

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