Dopo quello di Luned' (LINK), un altro articolo segnalato da un amico, che illustra una posizione nella quale non mi riconosco, ma sulla quale mi sembra utile riflettere.
Angelo Panebianco, 14 Agosto 2009, Corriere della Sera
La politica non è la lotta tra il bene e il male - Il dibattito su Moralismo e Riformismo
E' possibile liberare dalla gabbia mentale in cui sono imprigionati coloro che confondono politica e morale, che credono che moralità e moralismo siano sinonimi, che pensano che la politica sia una guerra fra l'armata della luce e quella delle tenebre? In un editoriale del 3 luglio ho sostenuto che il Partito democratico dovrebbe scrollarsi di dosso l'ipocrita impalcatura moralista che si è costruito. Che nel Pd ci sia una divisione fra riformisti e moralisti è dimostrato dalle reazioni a quell'articolo. ...
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3 commenti:
Tratto da: http://www.corriere.it/cultura/speciali/2009/bene_e_male/notizie/editoriale_panebianco_dc490c34-88db-11de-a986-00144f02aabc.shtml
IL DIBATTITO SU MORALISMO E RIFORMISMO
La politica non è lotta tra bene e male
E' possibile liberare dalla gabbia mentale in cui sono imprigionati coloro che confondono politica e morale, che credono che moralità e moralismo siano sinonimi, che pensano che la politica sia una guerra fra l'armata della luce e quella delle tenebre? In un editoriale del 3 luglio ho sostenuto che il Partito democratico dovrebbe scrollarsi di dosso l'ipocrita impalcatura moralista che si è costruito. Che nel Pd ci sia una divisione fra riformisti e moralisti è dimostrato dalle reazioni a quell'articolo.
Linda Lanzillotta, prendendo lo spunto dalle inchieste pugliesi, ha fatto un ineccepibile intervento (Corriere del 4 agosto) sulla necessità di una riforma del sistema della sanità che separi politica e amministrazione: un esempio cristallino di ciò che intendevo, nell’editoriale citato, per approccio riformista ai problemi di etica pubblica. Però, sempre sul Corriere del 4 luglio, si poteva anche leggere la sdegnata replica al mio articolo di Franco Monaco, democratico doc come la Lanzillotta, ma di altra pasta. Quello di Monaco sembrava un comunicato dell’ufficio stampa dell’Italia dei Valori. È la presenza di tanti Monaco a spiegare l’impossibilità per il Pd di scindere le proprie sorti da quelle di Di Pietro, di fare il salto dal moralismo al riformismo.
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Anche se è difficile oggi separare la questione del moralismo da quella della presenza in politica di Silvio Berlusconi proverò a farlo. Perché ci sono anche, mi ha ricordato Mario Pirani ( La Repubblica , 7 agosto), ottime ragioni politiche per criticare Berlusconi. L’intervento di Pirani, uno dei pochi editorialisti di Repubblica da cui non mi senta culturalmente agli antipodi, mi ha richiamato alla mente certi rituali del Pci, dove il reprobo veniva attaccato da uno che egli non riteneva troppo diverso da sé. Pirani elenca i tratti di Berlusconi (il conflitto di interessi, gli attacchi alla magistratura, eccetera) che richiedono di essere combattuti. Bene, ma faccio notare a Pirani che la sua ricostruzione è troppo squilibrata. Berlusconi, dice Pirani, è un unicum nel panorama conservatore: non è Sarkozy, la Merkel o Cameron. Sì, ma uno sguardo storico aiuta a capire. Noi non abbiamo avuto de Gaulle. Né la secolare alternanza fra conservatori e laburisti. Noi avevamo un sistema bloccato dominato da democristiani e comunisti. Berlusconi è un unicum ma è il prodotto di un altro unicum: la rivoluzione giudiziaria che spazzò via i partiti moderati e che, anch’essa, non ha confronti con quanto accaduto in altre parti d’Europa. Inoltre, come Pirani sa, i conflitti di interesse sono, per le democrazie, difficili da gestire (vedi il caso Bloomberg a New York).
Da noi, certo, il problema è reso ancor più acuto a causa delle televisioni. Ma imporre all’imprenditore che assume certi ruoli di vendere le aziende significa ignorare le regole del mercato: poiché vendere per legge è uguale a svendere tanto vale stabilire che agli imprenditori sia interdetta la politica. È fattibile? In altri termini, Pirani ha ragione ma fino a un certo punto: dimentica le cause che hanno «prodotto» Berlusconi e sottovaluta la complessità, e la difficile trattabilità, dei problemi che la presenza in politica di figure come la sua comportano. Mi meraviglio poi che Pirani adotti un atteggiamento così acritico sulla questione del rapporto fra Berlusconi e la magistratura. Ricordo che nei primi anni Novanta io e Pirani, consapevoli dei guasti di un sistema giudiziario fondato sull’onnipotenza del pm, eravamo fra i pochi a invocare la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri. Possibile che Pirani abbia cambiato idea al punto di vedere nello scontro fra Berlusconi e certi settori della magistratura solo la lotta fra un impunito e i suoi irreprensibili accusatori? Se così fosse, sarebbe Pirani, e non io, come egli mi accusa, a sfogliare le favole dei fratelli Grimm.
È infine strano che un fine analista sembri non comprendere il vero segreto del successo di Berlusconi dal ’94 in poi: il fatto che in un Paese iperstatalista, dominato fino a quel momento dai grandi «collettivi» (il Partito, il Sindacato, la Corporazione) abbia fatto irruzione un imprenditore che si è appellato allo spirito individualista, che ha proposto una «via individualista alla felicità». Si può deprecare il fatto ma non sottovalutarlo. Personalmente, ciò che soprattutto non sopporto di Berlusconi è la distanza, per me intollerabile, fra le promesse e le realizzazioni (di liberazione degli individui da «lacci e lacciuoli», nelle sue esperienze di governo, se n’è vista poca) ma, di sicuro, non sono fra quelli che deprecano l’appello al ruolo dell’individualità
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Torno sulla questione del moralismo. A forza di campagne moralistiche, nel corso dei decenni, si è messa larga parte delle nuove generazioni nell’impossibilità di capire alcunché di politica. Le si è addestrate a pensare la politica nei termini infantili e menzogneri della lotta fra il bene e il male, le si è condannate a non vedere la complessità del mondo e la sua ineliminabile ambiguità, anche morale. Non molti, ormai, riescono a distinguere fra la moralità (che investe una dimensione personale: riguarda il rapporto fra me, i miei atti e la mia coscienza e, per chi ci crede, Dio) e il moralismo, che è una tecnica di combattimento politico. I moralisti sono di due tipi: quelli che ci credono e quelli che si fingono. Quelli che ci credono pensano che invocare di continuo la moralità sia un modo di testimoniare la propria appartenenza alla schiera dei buoni. Sarebbero inoffensivi se la loro ingenuità non venisse sfruttata da altri, i veri utilizzatori del moralismo come tecnica politica. Da coloro, cioè, che in un mondo di esseri imperfetti e peccatori, si attribuiscono virtù che non hanno e si ergono a giustizieri morali. Sono i responsabili della propagazione di una immagine farsesca della politica, come luogo del confronto fra luce e tenebre.
La loro presenza rende difficile affrontare i temi di etica pubblica. Questi ultimi riguardano, per lo più, problemi di convenienza collettiva: ad esempio, conviene abbassare il tasso di corruzione, per generare condizioni di fiducia sociale e incentivi allo sviluppo, per migliorare le condizioni di vita. Ma parlare di queste cose con i moralisti è fiato sprecato.
Angelo Panebianco
14 agosto 2009
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