Consiglio la lettura di questo articolo di Salvatore Bragantini sul capitalismo, pubblicato dal Corriere della Sera del 5 Giugno: http://www.corriere.it/opinioni/14_giugno_05/finanza-servizio-dell-uomo-portera-meno-rischi-democrazia-243a1626-ec7f-11e3-9d13-7cdece27bf31.shtml
oppure: http://media.mimesi.com/cacheServer/servlet/CropServer?date=20140605&idArticle=189722270&authCookie=956574330
EVOLUZIONE DEL CAPITALISMO
La finanza al servizio dell’uomo porterà meno rischi alla democrazia
di Salvatore Bragantini
Anche nelle alterne vicende dei mercati si possono leggere le evoluzioni del capitalismo, cercando di individuarne le linee di fondo; si presta a ciò il tentativo (per ora fallito) del gruppo farmaceutico Usa Pfizer di acquistare la concorrente anglo-svedese Astra Zeneca (Az). Dopo un’iniziale difficoltà la preda Az ha respinto la proposta, ma alcuni suoi grandi soci, ingolositi dal valore della megaofferta, chiedono di riaprire la trattativa e di non pagare alcun bonus al management finché il corso di borsa di Az resterà sotto quel valore.
Per l’idealismo otto-novecentesco, la Storia era una linea retta tendente verso l’alto, pur con erratiche deviazioni; intere generazioni sono cresciute in quell’illusione. Il crollo dell’Unione Sovietica, dopo un lungo declino, doveva sancire il trionfo di quella tesi; ne è stato invece la cocente smentita. L’economia di mercato, dopo l’età d’oro degli anni 50-70, sconfitto l’insidioso concorrente agli occhi dei cittadini, anziché contentarsi del trionfo ha scordato il benessere generale, suo obbligato riferimento civile. Senza rivali, ha rotto gli argini, avviando una mutazione genetica che ha portato alla grave crisi; qui, dopo sette anni, ancora ci dibattiamo.
Anche economia e finanza subiscono gravi involuzioni, foriere di lunghi periodi di regresso civile. Sono interessanti i commenti sull’offerta Pfizer di John Kay e Martin Wolf sulFinancial Times, gran campione dell’economia di mercato (da non confondere con l’interesse dei gruppi dominanti). Kay ricorda, all’origine di Az, la nascita della divisione farmaceutica della Imperial Chemical Industries, con l’assunzione di James Black, brillante ricercatore che sviluppò farmaci fondamentali. La ricerca ha tempi lunghi e per vent’anni la farmaceutica causò perdite al gruppo; nei mercati di oggi ciò non potrebbe più avvenire, eppure il ricercatore Black, mai pagato come una star, ha salvato vite umane al contempo creando più valore per gli azionisti di qualunque grande manager. Kay confronta la frase di uno dei capi di Pfizer «Per quanto umanamente possibile, estraiamo profitto da qualsiasi cosa facciamo» con l’approccio dell’americana Merck: «La medicina è per la gente, quando ce ne siamo ricordati i profitti son sempre arrivati».
Wolf, premesso che Pfizer sposterebbe la sede a Londra per pagar meno tasse (e comprerebbe Az con liquidità ammassata fuori dagli Usa per sfuggire alle imposte), ricorda come la sua storia preoccupi sul futuro dei laboratori di ricerca di Az; si domanda, in conclusione, a chi spetti l’ultima parola su un’impresa strategica come Az. Il suo destino non può dipendere da chi ha comprato, magari un’ora prima, azioni che può vendere un’ora dopo. Mentre l’azionista può proteggersi dal rischio di perdita di valore dell’investimento, i dipendenti, che han solo il proprio capitale umano, non possono farlo. L’azionista, dice, è solo un assicuratore: il capitale che conferisce protegge l’impresa da shock imprevisti; ciò non può farne il dominus assoluto. La conclusione: a decidere sul futuro di Az non possono essere solo i soci. Wolf porta molto più in là la formula del Companies Act britannico, per cui gli amministratori curano il successo di lungo periodo dell’impresa, valutando anche gli interessi di dipendenti, fornitori e comunità locali.
La vicenda può innescare, invece di facili ironie sui britanni liberisti che riscoprono la politica industriale per alzare il prezzo, una riflessione seria. Pur se alcuni suoi passaggi sono discutibili, gli argomenti di Wolf pesano, ma se non spetta solo agli azionisti plasmare il futuro di imprese strategiche, a chi spetta? La difficoltà del problema non esime dal cercare le soluzioni. La proprietà delle azioni dà precisi diritti, certo non assoluti. Una grande impresa non è solo un «fascio di contratti» con al centro gli azionisti; è un organismo che vive di vita propria, e così dà da vivere. È interesse generale che possa durare nel tempo solo se saprà produrre, a costi competitivi, prodotti richiesti da compratori in grado di pagarli. Serve attitudine ad innovare, in continua tensione con la necessità di non tradire il Dna aziendale: equilibrio arduo da mantenere, di cui non possono essere arbitri assoluti i mercati.
L’Europa ha qui l’occasione di tornare al centro della storia, uscendo dall’eclissi in cui la confinano le sue ristrettezze politiche e gli spostamenti tettonici degli equilibri mondiali, che fanno emergere le potenze di altri continenti. Gli Usa hanno esportato nel mondo dopo il ‘45 un capitalismo moderato, che in Germania ha preso le forme dell’economia sociale di mercato; la rinascita tedesca è anche figlia degli ordini della potenza vincitrice. Dagli anni 80, però, essi hanno imposto all’economia di mercato una pericolosa torsione oligarchica; non abbiamo ancora finito di vederne gli effetti.
Spetta alle comunità plasmare il proprio destino, sapendo che economia e finanza non seguono leggi di natura, ma umane: chi, venendo dagli anni ‘60, atterrasse nel mercato finanziario odierno lo troverebbe migliore in certi aspetti, peggiore, e molto, in altri. Se saprà tornare, nella mutata realtà, alle sorgenti del suo processo politico, solo l’Europa potrà rimettere economia e finanza nell’alveo loro proprio, rifiutando di soggiacere ai comodi delle ricchissime élite dominanti. Non si può sperare che lo facciano né gli Usa, ove il fenomeno è giunto ad eccessi assurdi, né le potenze emergenti, dominate da altre cure. In un’era così palesemente asservita alla finanza, solo l’Europa avrebbe la forza per riaffermare che questa serve alle persone, non loro alla finanza. Tale ovvio concetto deve portare a profonde modifiche degli assetti attuali, altrimenti la democrazia stessa sarà a rischio.
5 giugno 2014 | 09:30
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1 commento:
Articolo interessante, ma, a mio avviso, ben poco condivisibile. Affermare, come è stato fatto, che il destino di un'impresa non può spettare agli azionisti, ma deve dipendere da qualcosa di "più altro" equivale, in parole povere, a dichiarare che la proprietà privata non esiste (o che esiste solo nella misura in cui l'utilità privata dell'uso di un bene supera le altre che, in definitiva, è la stessa cosa). Il problema di fondo è: chi determina qual è l'utilità di un determinato bene. Secondo i liberisti è il mercato, che, però, per alcuni è una bestia nera e abominevole dalla quale rifuggire con ogni mezzo e la fonte di tutti i mali. Ma se non è il mercato, allora chi determina l'utilità dell'uso di un bene? Il politburo? No grazie! Preferisco tenermi la democrazia, per quanto limitata e imperfetta, del mercato.
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