domenica 15 gennaio 2012

Paziente: ma quanto mi costi?

Inizialmente, ed un po' istintivamente, ero favorevole alla decisione di comunicare il costo del ricovero ai pazienti. 

Mi pareva un modo utile per responsabilizzare, per fare comprendere, magari anche a qualche evasore fiscale..., a cosa servono le tasse pagate.
Vedevo anche un positivo influsso sulle scelte di vita: del tipo "Potresti ancora permetterti di fumare e di bere, se dovessi pagare di tasca tua i danni da te stesso provocati al tuo corpo?"
O anche "Ora che ci hai fatto spendere tanto denaro per rimetterti in piedi, ti rendi conto di quanto sia stato stupido non allacciare le cinture di sicurezza ?"
Oppure "Il fatto di non avere fatto viaggiare in auto tuo figlio correttamente seduto ed allacciato in un seggiolino omologato, oltre ad avergli provocato danni permanenti, è anche costato questa cifra alla collettività. Capisci ora perché viene voglia di sospenderti la patria podestà?"


Un commento scritto da Vincenzo Ortolina fa invece riflettere anche su altri aspetti.
Eccolo:
Mi aveva un poco sorpreso il sostanziale plauso, sul Corriere “milanese”, di Giuseppe Remuzzi, personaggio dell’ambiente (in quanto medico ospedaliero), alla decisione di Formigoni (ovvero della sua direzione generale competente) di segnalare al paziente, in fase di dimissione dal nosocomio, quanto è costato al sistema sanitario. Dopo averci decantato la complessiva, indubbia bontà della nostra assistenza sanitaria, di carattere “universalistico” e “solidaristico”, il dottore-giornalista in questione, toccando appunto l’argomento, certamente delicato, dei suoi costi, ha fatto l’esempio (non proprio comune) di quell’uomo il quale ha subito un trapianto di fegato, rene e pancreas, che ha comportato una spesa di circa due milioni di euro.
Letto l’articolo, ho immediatamente pensato io stesso quanto ha scritto ieri sul medesimo giornale, in contrapposizione al Remuzzi, Alberto Scanni: avessero comunicato all’interessato la cifra, costui avrebbe rischiato di ….cadere in depressione (anch’essa da curare…). Forse, anzi - è una mia sottolineatura -, avrebbe rischiato …. l’infarto, se anche debole di cuore. Potremmo poi immaginare che se, “privacy” permettendo (ma certe notizie filtrano in ogni caso), l’importo fosse stata reso pubblico, la presumibile empatia con la quale il suo ritorno dall’ospedale sarà stato salutato dai conoscenti, si sarebbe potuta trasformare in un sentimento meno … caloroso. Insomma, la scelta dei decisori lombardi è “colpevolizzante”, non c’è dubbio. E dunque sbagliata. Non se ne comprende, in realtà, neppure l’utilità pratica: non servirà certo a far ammalare di meno i cittadini (in tal senso occorrono invece infinitamente maggiori interventi di prevenzione, tuttora insufficienti nella stessa Regione Lombardia), e neppure, come afferma il secondo articolista citato, a impedire gli abusi. Tralasciando qui, in proposito, il capitolo degli “scandali” di natura politica nel campo, di cui spesso ci riferiscono le cronache, che “costano” e che non sono certo causati dal cittadino “comune”, è difficile imputare a quest’ultimo altri tipi di sprechi, a me pare. Che certamente ci sono, peraltro, in molti gangli, non soltanto quello ospedaliero, del “sistema”. Intendo dire: ribadito che il cittadino si sottoporrebbe volentieri, laddove ci fossero, a interventi di prevenzione sanitaria utili a sfuggire appunto da malattie poi costose da curare, credo si debba considerare, primo, che le prescrizioni per esami diagnostici, così come per l’acquisto di medicine, vengono rilasciate dal medico di base, il quale si suppone agisca “secondo scienza e coscienza”. Certo, talvolta il paziente “pretende”, ma poiché tra medico e paziente c’è un’insuperabile asimmetria di conoscenza, e quindi di “potere”, tocca al “dottore” dire di no, quando necessario. Ora vi sono anche i farmaci che non necessitano di prescrizione, è vero, e dunque di “libera scelta” del cittadino, ma questi sono di norma pagati integralmente dagli interessati. Quando poi viene ricoverato in una struttura ospedaliera, il malato è letteralmente (e per taluni versi doverosamente) alla “mercé” dei sanitari: non decide proprio nulla per sé (salvo sottoscrivere per quanto necessario, fidandosi, l’autorizzazione ai medici a procedere con gli interventi nei suoi confronti, e … scegliere, ma soltanto parzialmente, il menù per i pasti connessi alla degenza). Ecco, allora, che lo stesso spreco riguardante eventuali prestazioni “inappropriate” (di natura ospedaliera e no) non può essere imputato al paziente. Su che cosa lo vogliamo dunque responsabilizzare, presentandogli il “conto” finale (sia pure …virtuale, per lui)? E poi: se tale conto è comunicato esclusivamente all’interessato, quale effetto “sociale” positivo produce? O forse meglio pubblicare periodicamente sul Bollettino ufficiale della Regione (lo dico ironicamente, è ovvio) l’elenco dei dimessi, coi relativi costi? Ai “buoni cattolici” che comandano la sanità lombarda viene allora voglia di ricordare il sacrosanto principio che ha sottolineato recentemente anche il cardinale Ravasi, milanese: “il rispetto della dignità della persona non è mai riducibile alla mera dimensione economica”.

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