martedì 11 marzo 2008

Ritratti di NON candidati: Nando dalla Chiesa

Grazie, solo grazie! Al resto ci pensiamo
Scritto da Nando dalla Chiesa, Tuesday 11 March 2008

Grazie a tutti! Grazie alle migliaia di persone che da ogni parte d’Italia hanno sottoscritto l’appello per la mia candidatura. Grazie alle personalità, espressioni di tanti mondi diversi, che con la loro firma generosa hanno dato il via all’appello. C’è stato qualcosa di bello, di struggente e di entusiasmante insieme, in questa marea di firme ... (segue sul blog di Nando dalla Chiesa)




1 commento:

Anonimo ha detto...

Esclusiva per i blogghisti.

Intervista di me a me medesimo sulla vita e sul Pd.

Scritto da Nando dalla Chiesa
Wednesday 12 March 2008


Ecco finalmente a voi l’intervista che non avreste mai letto da nessuna parte. E non solo per la lunghezza. Nando 1 intervista Nando 2. Lo so, è un po’ samizdat un po’ Marzullo (si faccia una domanda, si dia una risposta…). Ma aiuta a sapere. Aiuta a capire. Un consiglio: meglio se il testo lo stampate, la lettura sarà più comoda. Una richiesta: fatelo girare il più possibile. Per siti, per amici, per compagni d’avventura.


D. E ora, Sottosegretario?
R. E ora si va a Palermo. Sì, a Palermo. Non mi guardi in quel modo. Se non vogliono che faccia le mie battaglie per la legalità dall’interno del parlamento, le andrò a fare direttamente sul campo più simbolico, almeno per me. Andrò all’università di Palermo. A Milano il mio corso è quello di Sociologia economica. In Sicilia ne farò un punto di riferimento civile e scientifico sui temi dell’economia illegale: pizzo, usura, capitali sporchi, economia di mercato. E anche cultura imprenditoriale per le nuove generazioni: non le voglio più vedere schiave dei concorsi pubblici, in attesa di una supplenza settimanale a scuola. Ci vuole una rivoluzione delle menti. E di tutto il contesto, ovviamente.

D. Abbandona Milano, allora?
R. Nemmeno per idea. Invece di fare il pendolare Milano-Roma, più i miei giri per l’Italia, farò il pendolare Milano-Palermo, più i miei giri per l’Italia. Sono abituato a lavorare molto. A Palermo e ai suoi giovani darò molto. Ma non lascerò Milano. Continuerò a essere me stesso. Cioè uno che si batte per buone cause, che sperimenta forme di impegno differenti, che viaggia senza interruzione per i suoi appuntamenti civili o culturali. A Milano c’è Melampo, la casa editrice. Finora per me e i due miei soci-allievi, Lillo Garlisi e Jimmy Carocchi, è stata come un giocattolo, e nonostante ciò nel 2007 il fatturato è aumentato del 70 per cento. Ora la lanceremo in grande stile. In più lo spazio Melampo, che abbiamo inaugurato da poco, diventerà un centro di cultura viva e originale. Milano ne ha bisogno. E magari faremo un bel Melampo news.

D. Insomma, università e casa editrice. E dintorni…
R. Be’, non fermiamoci. E il teatro dove lo mette? Ho intenzione di dedicarmici sul serio. L’anteprima di “Poliziotta per amore”, il mio monologo teatrale, è andata bene, diventerà uno spettacolo per la stagione romana 2008-2009. Mentre dalle “Ribelli” è stato tratto un altro spettacolo che andrà al Parenti a Milano e all’India a Roma. E ho appena finito un altro testo, “Omicidio colposo”, anche se per quello c’è tempo. E l’”Unità”? Finche ci sarà Padellaro voglio scriverci, è uno dei miei motivi di orgoglio. E anche su “Europa” continuerò. Venderà poco ma a me non dispiace affatto. E il Blog diventerà uno strumento di comunicazione più potente. Finora l’ho seguito tra molte difficoltà. Ma se l’immagina con i video e con le rubriche? E poi i libri… Sto scrivendone uno per Einaudi, “Album di famiglia”, uscirà in autunno: è un po’ il senso delle istituzioni visto attraverso quattro generazioni di dalla Chiesa. Dai due nonni generali ai i miei Gracchi, i miei splendidi figli… Dimenticavo. Il Mantova Musica Festival: quest’anno avrà per titolo “La mia vita è come un rock”. E in luglio proverò a fare quello dedicato ai giovani di accademie e conservatori.

D. Dunque tutto tranne la politica. E’ così?
R. Questo lo dice lei. In primo luogo perché la politica attraverserà in un modo o nell’altro tutte le mie attività. E, reciprocamente, queste attività “faranno” politica. Lo lascio credere volentieri ad altri che la politica sia una somma di operazioni di Palazzo, più una spruzzata di comparsate televisive. In secondo luogo perché io nel Partito democratico ci credo davvero. E farò di tutto perché diventi un’altra cosa. L’Italia merita un bel partito democratico. E, se non lo merita, ne ha bisogno.

D. Intanto però il Partito democratico in parlamento non l’ha voluta. Perché c’è rimasto così male se ha tutti questi programmi e se con questi programmi farà comunque politica? L’ha appena detto lei...
R. E glielo confermo. Si figuri se non ricordo quello che feci nei cinque anni di opposizione a Berlusconi. Il parlamento era ridotto a un luogo-vassallo. Ratificava decisioni prese altrove. Mi inventai di tutto: dalla manifestazione di piazza Navona, ai sit-in, al sostegno ai girotondi, all’aereo che volteggiava sul senato con la scritta “la legge è uguale per tutti”, al festival di Mantova (ricorda? Tony Renis direttore artistico a Sanremo…), centinaia di racconti in diretta dal Senato per l’Unità e Avvenimenti, fino al teatro civile, con “Il partito dell’amore”, in cui imitavo Berlusconi. Io sono un timido. Pensa che l’avrei fatto se non per la convinzione che fosse politicamente utile? Ne ho fatta di politica fuori dal parlamento. Forse, tra i parlamentari, come nessuno.

D. Appunto. E allora?
R. E allora glielo spiego subito. Il parlamento sarà anche stato svuotato. Ma a un certo punto è lì che sai subito che cosa sta per essere deciso di inconfessabile; ed è lì che le decisioni vengono ratificate. Ci sarebbe mai stata la manifestazione di un milione di persone a piazza San Giovanni sulla Cirami se una sera di luglio del 2002 (la sera delle mie nozze d’argento, con mia moglie venuta da Milano che mi attendeva inutilmente fuori dal senato per festeggiare) io non avessi colto al volo che volevano far passare la legge a tambur battente, non avessi intuito qualche cedevolezza di altri esponenti dell’opposizione e non avessi occupato alle due di notte l’aula della commissione Giustizia e non avessi poi fatto una conferenza stampa di denuncia chiamando i girotondi alla mobilitazione? Vede, c’è un dettaglio della vita del Senato in quella legislatura che nessuno conosce, ma che può servire a far capire. In commissione Giustizia si formò una combinazione umana fantastica. In particolare nacque un trio composto da Elvio Fassone, coltissimo ex magistrato torinese, diessino, Giampolo Zancan, avvocato d’assalto, torinese anche lui, eletto con i verdi, e da me. Fummo la spina dorsale dell’opposizione.

D. Non sta esagerando un po’?
R. Aspetti. Fu o no quella legislatura caratterizzata soprattutto dalle leggi della vergogna, Cirami, rientro dei capitali, rogatorie, falso in bilancio, lodo Schifani, Pecorella, controriforma della giustizia ecc? In ogni caso la giustizia ne fu la questione cruciale. Ecco, lei sa che cosa si dice in genere tra parlamentari? Che alla Camera si fa politica e al Senato si mangia bene. Be’, quella invece fu l’unica legislatura in cui la battaglia vera si fece al Senato. Facevamo un gioco di squadra scientifico. Fassone partiva flemmatico e inflessibile con la sua dottrina e tracciava il solco per tutti, Zancan ci si gettava con la sua esperienza di malagiustizia citando (ed era stupendo) processi di Pinerolo, di Bressanone, alle Bierre, ecc; io arrivavo per terzo e ci mettevo lotta alla mafia, sociologia del diritto e rabbia genuina. E poi a turno Ayala, Cavallaro, Brutti, Calvi, Maritati. E per loro tutto diventava difficile. Molte cose gliele abbiamo impedite o li abbiamo costretti a farle così di fretta da dover poi subire gli interventi della Corte o vedere vanificati i loro tentativi dalla stessa giurisprudenza. La sa una cosa? La legislatura dopo non c’era più nessuno dei tre. Per Fassone scattò la regola dei due mandati (che per altri diessini in commissione non scattò), per Zancan scattò la regola di Pecoraro Scanio (faccio quello che voglio io), per me - l’unico - scattò la regola che bisognava decidere prima del voto se si voleva andare al governo o in parlamento. Nulla fu concordato, è ovvio. Ma posso dire che se ci fossimo stati noi tre in quella commissione, probabilmente l’indulto non sarebbe passato? Vede? Questo non si può ottenere né con il teatro né con i libri…

D. Lei in ogni caso in parlamento non avrebbe potuto tornarci per via della regola dei tre mandati stabilita dal suo partito. Non la condivide questa regola?
R. Sì se è una regola che vale per tutti. Lei se l’immagina un parlamento che fa una legge e poi dice ai cittadini: questa però vale solo per voi? Succede nella repubblica delle banane. Qui è successo esattamente così. Un gruppo dirigente ha fatto la regola e ha deciso che per sé non valeva. E ha fatto delle altre leggi ad personam. Il tetto non vale, per esempio, per i vicecapigruppo in parlamento. I vicecapigruppo, assoluti sconosciuti, ma si rende conto? A quel punto la regola è una barzelletta. Ed è a questo punto che, in quanto barzelletta, la contesto. Serve fare largo a giovani e donne? Sono d’accordo, ho firmato anche per il 50 per cento di donne. Ma allora dico due cose: 1) è questo il modo migliore per “fare largo”? 2) e a quali giovani e donne bisognerebbe fare largo?

D. E lei come risponde?
R. Io rispondo che il metodo è assurdo. Se uno vuole davvero costruire un’Italia fondata sui meriti, deve farlo a partire dalle candidature al parlamento, ossia dal luogo in cui si fanno le leggi. E allora se bisogna “sfrondare” si mandano fuori per prima cosa i fannulloni. Lo sanno tutti, ma proprio tutti, che alle commissioni, in parlamento, partecipa non più di un terzo dei deputati e non più della metà dei senatori. Gli altri ci capitano ogni tanto a votare, chiamati ansiosamente al telefono, e per il resto vanno in aula a leggere il giornale, telefonare e schiacciare il bottone. E allora, chi si manda via: chi ha fatto una, due legislature in panciolle o chi ne ha fatte tre spremendosi come un limone? Il guaio è che continua a valere il principio di anzianità, sia pure rovesciato. C’è sempre un assente in questa storia, il merito. E d’altronde se a decidere le candidature è gente che non è mai stata in un’azienda o in una organizzazione moderna, non potrà essere diversamente. Quanto alle donne e ai giovani da fare entrare, un conto è se si candidano persone che si sono conquistate i galloni sul campo, un conto è se si fa un’infornata dei propri segretari, assistenti, consulenti, portavoce, figli e parenti. Giusto? Se mi dicono che entra uno dei ragazzi che hanno guidato l’occupazione dell’Accademia di Belle Arti di Roma, ha un senso. E’ un giovane che rappresenta altri giovani. Ma se mi dici che ci metti la tua segretaria, io dico che è una truffa. E che un’operazione presentata come il mezzo per smantellare “la casta”, esprime l’arroganza della casta. Aggiunge alla casta la “castina”. E anzi le dico pure un’altra cosa…

D. Quale?
R. Che questo metodo potrà pure avere il vantaggio di avere persone perfettamente ubbidienti e di scaricare sulle istituzioni il costo di qualche portavoce personale. Ma ci renderà più deboli in parlamento. Perché lì l’esperienza pesa, guardi che io ho raggiunto la mia massima efficacia nella terza legislatura. E dal momento che la regola dei mandati non vale per tutti i partiti, noi avremo un esercito di esordienti contro truppe di lupi da parlamento. Che se li mangeranno. Date tutte queste considerazioni, insomma, quando vedo Franceschini annunciare in tivù, tutto giulivo, quanta gente nuova ha messo in lista, mi viene da cambiar canale.

D. Ma non è giusto arginare il professionismo politico?
R. Certo che lo è. Ma anzitutto, glielo ripeto, se vale per tutti. Ma poi lei pensa che il professionismo politico consista solo nello stare in parlamento? Mi ascolti bene. Se uno inizia a fare il funzionario di partito a venti o ventidue anni, poi dopo dieci gli fanno fare l’assessore o lo pagano per scrivere sul giornale di partito, poi dopo altri dieci lo mettono in un consiglio d’amministrazione di una municipalizzata o di una cooperativa e poi si fa un consiglio regionale e due legislature in parlamento, secondo lei quello che cos’è, società civile perché non ha tre mandati? Se vuole che poi che venga al mio caso personale…

D. Appunto…
R. …ecco, le dico che io ho due mandati e mezzo, nemmeno consecutivi. E che se il mio problema fosse il professionismo della politica, ora starei a chiedere un “risarcimento”. Che nel linguaggio politico significa una carica politica remunerata. Magari di assistente di nuovi parlamentari (anche questo succede, sa?), o di consulente dell’Antimafia, o di consulente di questo o di quell’assessorato presso un’amministrazione di sinistra. O un consiglio d’amministrazione. Ma l’ho detto alla Bindi, per chiarire bene chi fossi: non mi vedrete mai in Transatlantico a chiedere un incarico.

D. Lei ha usato più volte in questi giorni l’aggettivo “amareggiato”. Perché?
R. Guardi, premesso che quando mi sveglio al mattino sto già a progettare il mio corso di Sociologia economica, e che io per abitudine mi tuffo più volentieri nel futuro che nel passato, vuole che non sia amareggiato? Mi sono battuto dagli inizi degli anni novanta per il partito democratico e quando nasce vengo messo fuori dalla sua prima rappresentanza parlamentare da gente che fino a due anni fa era contraria a farlo. Per un tempo lunghissimo non ho quasi avuto vita privata per garantire alla politica una patente di credibilità presso la società civile, e quando hanno finto di raccogliere le domande di rinnovamento della società civile mi hanno messo alla porta. Certo, insieme ad altri; di cui mi fanno l’elenco, quasi a dirmi che non so accettare un’esclusione: ma è un elenco di persone sconosciute e senza battaglie alle spalle, alcuni addirittura transfughi dalla destra. O di gente con sei-sette legislature. E questo mi offende ancora di più. Insieme a un’altra cosa che dico da un paio di giorni rompendo i miei pudori.

D. Ossia?
R. Che un po’ mi ha fatto male vedere certi personaggi alla continua rincorsa di cognomi da rotocalco, e pronti però a disfarsi con un’alzata di spalle di uno dei cognomi più rispettati dagli italiani nelle storia della Repubblica, un cognome che io credo di avere onorato. Onestamente: non so se la destra l’avrebbe fatto. D’altronde a volte si ha la sensazione di avere a che fare con persone prive di senso della storia. Quasi lo stesso è successo a Giovanni Bachelet. Per lui a Roma hanno raccolto migliaia di firme, è un testimone della società civile e della comunità scientifica. Lui non aveva nemmeno alcun mandato alle spalle. Be’ l’hanno messo in zona retrocessione, tra quelli che possono non passare… Mi domando come si possa costruire la storia senza avere il senso della storia.

D. Senta, però lei è arrivato a far parte di un governo. Dunque non è stato un emarginato. E allora perché ora sarebbe scattata questa preclusione? Ha avuto qualche scontro in questi due anni?
R. No. O meglio: ci ho pensato e non credo che la causa di questa rimozione si debba cercare negli ultimi due anni. E’ una vicenda più lunga. Vede, io sono entrato in politica con la Rete. Un movimento eretico, che finanziò la sua campagna elettorale ipotecando le case dei suoi fondatori. Poi ci tornai perché i verdi di Ripa di Meana e di Ronchi mi chiesero di candidarmi da indipendente con loro. Entrai nei Democratici seguendone il percorso fino al Partito Democratico. Ma qui mi sono ritrovato, senza più recinti e protezioni, nel mare magno in cui comandano gli ex democristiani e gli ex comunisti. E io per loro sono quello di Società Civile a Milano, quello che denunciò Tangentopoli (la Tangentopoli delle sinistre) prima di Di Pietro. Sono quello che con la Rete si è battuto per abolire l’immunità parlamentare. Sono quello della prima denuncia scritta e processuale delle complicità di Andreotti. Vuole che continui? Ho solo l’elenco, da piazza Navona (e la colpa di avere dato la parola a Nanni Moretti) fino alla lotta pubblica contro le tessere false della Margherita. E’ la mia vita. E’ la mia vita che di fronte a molti di loro mi rende un corpo estraneo.

D. Ma lei condivide quel che le ha scritto l’economista Marco Vitale? pensa cioè di subire un isolamento analogo a quello di suo padre?
R. La drammaticità dello scontro sostenuto da mio padre, e l’infinito coraggio che richiese la sua azione, sono senza confronto. Ma la sensazione di essere corpo estraneo a causa di un diverso senso delle istituzioni, questo sì, lo avverto. E guardi, il problema non è Veltroni. Con lui ho sempre avuto rapporti cordiali, anche amichevoli. Non credo neanche che abbia potuto seguire molto la gestione delle liste. Ieri mi è arrivata una sua lettera di fine febbraio, di elogio per il testo di “Poliziotta per amore”, che mi aveva chiesto tempo fa di leggere e che gli avevo mandato. Si capisce che il testo l’ha letto veramente, fra l’altro. Il che non dev’essere stato semplice, con quello che ha da fare. Il problema è di sistema. Di culture di sistema, di correnti, di miopie e arroganze diffuse. Che rischiano di strozzare in culla il Partito democratico.

D. Mi scusi ma a questo punto una domanda devo fargliela, anche perché se la fanno in molti.
R. Prego…

D. Ma la Bindi l’ha sostenuta in questa vicenda?
R. Probabilmente sì. Ma il fatto per me sconvolgente è stato di avere saputo, a liste già fatte, che da giorni era stato deciso che io non dovessi avere la deroga. Ossia: dal quartiere generale delle candidature hanno detto alla Bindi che per chi l’aveva sostenuta alle primarie c’era una deroga sola a disposizione (alla faccia del rifiuto delle correnti…), lei e non so chi hanno deciso di darla a Franco Monaco, ma a me non hanno detto niente. Io per decoro telefonavo non più di una volta ogni due giorni (c’è gente che si è piazzata a Roma, mentre io viaggiavo per gli incarichi di Ministero) e loro mi dicevano di stare tranquillo, che avrebbero fatto il possibile, che sapevano il mio valore e la mia utilità. Poi l’ultimo giorno non ho più sentito nessuno. Al mattino ho ricevuto l’sms di due amici lombardi: “ci spiace, ti siamo vicini”. Ho chiesto anch’io per sms, per non disturbare, a chi stava contrattando le liste. Nessuna risposta. Solo a sera, mezz’ora dopo l’annuncio dei Tg che le liste erano state firmate, e dopo molte sollecitazioni, mi ha chiamato la Bindi per dirmi della decisione presa giorni prima a mio svantaggio.



D. Gliel’hanno detto a cose fatte temendo una reazione dell’opinione pubblica che potesse costringerli ad altre decisioni?
R. E’ possibile. Il fatto è che a quel punto la stessa offerta di Di Pietro, anziché acquisire un valore simbolico generale, visto che anche lì le liste erano già state fatte, acquisiva il sapore di una candidatura di lista, alla ricerca di un seggio purchessia. Di Pietro forse non poteva fare diversamente, e ringrazio lui e Orlando. Ma io non potevo accettare. Fatto sta che, salva un’altra telefonata della Bindi dopo la lettera aperta che le ha mandato mio figlio, io non ho più sentito nessuno. Nessuno mi ha spiegato perché la deroga sia stata respinta. Un silenzio assoluto. Totale. Una vera comunità umana, non c’è che dire. Per fortuna che c’è stata quella marea di firme a mio sostegno. Se no me lo sarei chiesto davvero: ma per chi ho lavorato in questi anni?



D. E qui casca l’asino, se mi passa l’espressione. Ma lei pensa davvero di continuare a lavorare per un partito così?
R. E me lo chiede? Guardi, io, diversamente da altri, non ho vissuto camminando su un tappeto rosso, portato per mano da qualche nume tutelare. Ho qualche cicatrice sulla faccia. E so che cos’è la politica. Ho scritto anni fa che è anche “mal di cuore”. Lo confermo. Io non smetto per così poco. Un esponente del Pd milanese ha detto, prima che le liste fossero chiuse, “finalmente ci siamo liberati di chi ci ha fatto perdere”. No, non si sono liberati. E anzi, posso aggiungere una cosa?



D. Ci mancherebbe, questa è un’intervista libera.
R. La teoria che io farei perdere è la coperta che usano per evitare di dire pubblicamente la verità: e cioè che quel che di me non sopportano è proprio l’idea che io ho dei rapporti tra partiti, istituzioni e società civile. Rimonta al ’93, questa teoria, a quando mi presentai candidato sindaco. La sinistra stava affondando sotto i colpi di Tangentopoli, i militanti dell’allora Pds andavano in tivù a dire che avrebbero raccolto una colletta per restituire il maltolto dei loro amministratori. Io diedi - posso dirlo? - un’immagine pulita a tanti che lo meritavano e, nel pieno dell’ondata leghista (presero il 42 percento a Milano!), avendo il Pds sotto il 9 per cento…



D. Sotto il 9 per cento?
R. Sì, ha capito bene, avendo il Pds sotto il 9 per cento, portai la sinistra al 43 per cento. E mi diedero pure la colpa della sconfitta! per non avere l’incomodo di spiegare le vere ragioni di quell’ostilità…Ecco, ora qualcuno vorrebbe espellermi... Io invece ritengo di essere il socio ideale del Partito democratico. Non so prevedere, onestamente, per quali vie si dovrà passare. Alcune saranno anche accidentate, potranno pure sembrare contraddittorie. Ma lì voglio arrivare, a un partito democratico degno di questo nome. Molti pensano che il peso delle persone corrisponda alle loro apparizioni televisive. Io in tivù non ci vado, è vero, non faccio parte delle compagnie di giro catodico di Vespa e degli altri; ma giro molto per l’Italia reale, e da decenni. Un credito ce l’ho, come per fortuna ha dimostrato la mobilitazione di questi giorni. E cercherò di spenderlo nel modo migliore. Anzi la stupirò: farò pure un po’ di iniziative elettorali per il Pd di oggi. Manterrò gli impegni già presi prima di sapere della mia esclusione. E oggi ne ho aggiunto un altro per una persona che stimo molto.



D. Un’ultima domanda, Sottosegretario. Ma se ha tutti questi progetti, perché deve andare proprio a Palermo?
R. Per quello che le ho già detto all’inizio, ovviamente. E per un’altra ragione. Perché credo che una fase davvero nuova nella vita di una persona si apra e si possa aprire solo con una grande sfida. Una sfida che dia senso al futuro ma anche a ciò che si è fatto prima. Nonostante quel che è accaduto, io amo Palermo e i siciliani. E sono sicuro che questa sfida mi darà più forza e vitalità anche per affrontare le altre. In fondo la giovinezza è il contrario di un tappeto di velluto rosso. E’ amore per la lotta. E io mi porto scolpita nella testa quella stupenda frase di Picasso: ci vuole molto tempo per diventare giovani.

Tratta da:
http://www.nandodallachiesa.it/public/index.php?option=content&task=view&id=811

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