sabato 4 febbraio 2012

Economia: cosa succede in Israele

CULTURA attualità 31/01/2012 - la storia  - Israele la faccia tosta fa start-up
È il Paese con la più alta densità di nuove imprese. Un libro racconta il miracolo e ne spiega le ragioni

IRENE TINAGLI

Se si chiede ad alcuni dei più affermati imprenditori e investitori dov’è la nuova Silicon Valley, molti risponderanno: Israele. In effetti i dati sono sorprendenti. È il Paese con la più alta densità di start-up al mondo (una ogni 1.844 cittadini), un livello di investimenti di venture capital che, nel 2008, era due volte e mezzo più alto di quello registrato negli Stati Uniti, 30 volte maggiore del livello europeo e 80 volte di quello cinese. Ed è il secondo Paese dopo gli Stati Uniti per numero di imprese quotate al Nasdaq. Per rendere un’idea: un numero che supera quello di tutte le imprese del continente europeo messe assieme.

Ma cosa c’è dietro il «miracolo economico» d’Israele?
Alcuni economisti e studiosi stranieri lo hanno spiegato con le politiche economiche che hanno fortemente incentivato la ricerca e la nascita di aziende tecnologiche (Israele ha il più alto tasso di investimenti in ricerca e sviluppo del mondo), altri con le privatizzazioni e le liberalizzazioni intraprese nel 2003 da Netanyahu quando era ministro delle Finanze (e in particolare la sua riforma del sistema bancario), altri nell’enorme riserva di capitale umano del Paese, con il 45% della popolazione in possesso di istruzione universitaria (un dato invidiabile se confrontato con il 15% italiano). Ciascuno di questi fattori ha certamente svolto un ruolo importante nella crescita israeliana. Ma dipingono un quadro molto incompleto, che trascura il contesto storico e culturale di un paese che ha caratteristiche assai peculiari, elementi che ne hanno influenzato (e continuano a influenzare) la traiettoria di sviluppo. Chiunque abbia avuto modo di conoscere alcuni dei protagonisti di questa rinascita - per lo più giovani ingegneri, programmatori, imprenditori - si è certamente reso conto che il segreto del successo di queste persone non può essere semplicemente ascritto a una specifica politica industriale o economica, ma è legato a qualcosa di più profondo che pervade il loro modo di pensare e lavorare, di affrontare sfide e problemi.

Questo qualcosa è perfettamente descritto da Start-Up Nation , un libro Dan Senor e Saul Singer già pubblicato negli Stati Uniti, che ora esce in Italia, da Mondadori, con il titolo Laboratorio Israele (pp. 264, 18). Un insieme di analisi e racconti da cui emerge come le continue e enormi difficoltà che questo Paese ha dovuto affrontare abbiano forgiato il carattere e lo spirito della sua gente, e come ciascuno di questi ostacoli sia stato trasformato in punto di forza. Ed è questa prospettiva storica che ci mostra, per esempio, come un Paese sotto costante minaccia di attacchi terroristici abbia imparato a organizzare la propria vita economica e sociale in modo da non essere intaccata dalle vicende militari, diventando uno dei sistemi economici più produttivi e affidabili. E come la necessità di investire così tanto in difesa e di avere un’obbligo di servizio militare dai due ai nove anni per tutti i giovani israeliani (a cui vanno aggiunti 20 anni di riserva) sia stata trasformata in una straordinaria opportunità di formazione professionale e personale dei cittadini (l’esercito israeliano non solo ha tecnologie sofisticatissime, ma fa uso di sistemi di selezione, istruzione e formazione dei propri soldati efficaci come quelli di Harvard o Stanford).

Persino i frequenti boicottaggi di tutte le loro merci hanno svolto una parte, stimolando gli israeliani a dedicarsi ad attività e prodotti piccoli e immateriali come i software e le tecnologie legate alle comunicazioni e a Internet. Per non parlare del ruolo della loro lunga diaspora, che li ha resi cosmopoliti, pronti ad affrontare e adattarsi a qualsiasi contesto e, soprattutto, aperti all’immigrazione. Migliaia di rifugiati sono stati accolti in Israele: dagli etiopi in fuga dal regime antisemita di Mengistu Haile Mariam agli ebrei romeni scappati dal regime di Ceausescu. Per non parlare degli 800 mila ebrei russi che vi si riversarono dopo il crollo dell’Unione Sovietica (equivalenti a un sesto di tutta la popolazione israeliana dell’epoca). Eppure ognuna di queste persone ha ottenuto la cittadinanza lo stesso giorno in cui è arrivata in Israele.

Un complesso insieme di fattori che ha reso questo popolo tremendamente tenace, imprenditoriale e «problem solver». Esattamente quello che serve per competere oggi e per attrarre investimenti da ogni angolo del mondo. Può sembrare incredibile che gli investimenti stranieri in Israele siano triplicati negli stessi anni in cui sono aumentati gli attacchi terroristici. Ma come ha detto Warren Buffett quando ha investito 4,5 miliardi di dollari in un’azienda israeliana: non è importante se un missile distruggerà uno stabilimento. Lo stabilimento si ricostruisce. Quello che è importante è il talento dei lavoratori e dei manager, la loro affidabilità, la reputazione che si sono costruiti nel mondo. Ecco cosa attrae aziende come Intel, Google o Microsoft.

Le sfide per Israele non sono certo finite. Preoccupa il nuovo rallentamento dell’economia internazionale che si profila per il 2012. E preoccupano il recente apprezzamento dello shekel sul dollaro e le previsioni sull’inflazione. Ma se questo Paese riuscirà a tener vivo quello spirito che gli ha fatto trasformare ogni difficoltà in elemento di forza, è probabile che riuscirà ancora a farcela.

http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/440573/



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